mercoledì 24 luglio 2013
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«Quanto accaduto nelle ultime settimane a Istanbul è evidentemente preoccupante. Ma intorno a Gezi Park la Turchia sta vivendo una crisi di crescita, frutto della vivacità che è cresciuta in questi anni nel Paese. Ed è espressione di un pluralismo che ha radici antiche». Guarda da una prospettiva storica alla Turchia Giorgio Del Zanna, docente di Storia dell’Europa Orientale all’Università Cattolica di Milano, che proprio al momento di passaggio per eccellenza di questo angolo del mondo ha dedicato il suo ultimo libro La fine del mondo ottomano (Il Mulino, pp. 208, euro 13). Pagine in cui ripercorre i decenni che portarono alla dissoluzione dell’impero ottomano e alla nascita della Turchia di Atatürk, segnati già allora da temi come il rapporto tra islam e modernità o la questione delle minoranze che suonano di nuovo attuali nel travaglio della Turchia di oggi.Professor Del Zanna, che cosa si è inceppato nella Turchia di Erdogan che fino a pochi mesi fa tutti indicavano come un modello?«La protesta è espressione di una società civile matura, vivace, che di fronte alle scelte forti di Erdogan teme un passo indietro. Vede vacillare l’equilibrio che l’Akp aveva in qualche modo costruito tra la Turchia islamica e quella laica e quindi lancia un segnale chiaro. C’è un autoritarismo che preoccupa. Però questo non deve far dimenticare che Istanbul non è il Cairo o Tunisi: esiste un pluralismo di fondo, sono stati raggiunti risultati economici importanti, anche nel rapporto con le minoranze ci sono stati gesti significativi. È una crisi di crescita in cui probabilmente oggi - come spesso accade - la società civile è un passo più avanti rispetto alle sue forze politiche».Lei nel suo libro sostiene che già l’impero ottomano era molto più moderno di quanto noi pensiamo. In che senso?«Le cito un dato: la Costituzione dell’impero ottomano è del 1866, pochissimi anni dopo l’unità d’Italia. La sua crisi non fu affatto un frutto del mancato appuntamento con la modernità. Vale il discorso opposto: entrò in crisi quando è modernizzò. Riconoscerlo è un dato importante, perché oggi il mondo islamico viene letto spesso come lontano dalla modernità. Senza cogliere che invece i problemi che molte società musulmane attraversano sono proprio legati ai processi di modernizzazione». Quali caratteristiche aveva la via ottomana alla modernizzazione?«Reagì alla crescente pressione europea con lo sviluppo di movimenti caratterizzati da un islam di origine sufi, legato alla confraternita naqshbandi che tuttora influenza le dirigenze turche. Movimenti che - rifacendosi al rispetto della tradizione islamica - non rinunciavano all’idea di trasformare la società. Uscivano dall’impostazione quietista che era presente in molte altre correnti».  Ma allora - per dirla con Bernard Lewis - "che cosa andò storto"?«È proprio questa la prospettiva da ribaltare. Bernard Lewis si basa su una riflessione controfattuale: vedendo ciò che è stato l’Occidente applica le stesse categorie al mondo islamico arrivando a dire che l’islam ha sbagliato percorso. Ma occorre capire che le vie alla modernità non sono tutte lineari, i processi di cambiamento possono innescare reazioni contrarie. Il mondo ottomano, ad esempio, percorse la strada della centralizzazione dello Stato, della trasformazione delle strutture amministrative e scolastiche. Ma questo creò dinamiche che poi non furono più in grado di controllare: entrarono in crisi la coabitazione e il pluralismo e questa fu una delle ragioni della crisi dell’impero». E lasciò in eredità una ferita tuttora aperta in Turchia.«La Turchia e tutt’altro che un Paese omogeneo. Non a caso al suo interno ha un grosso problema di minoranze: pensiamo alla questione curda o agli alewi. L’eredità di un mondo plurale è rimasta e ha reso difficile la costruzione di un’identità nazionale: per questo il problema delle minoranze si è accentuato fortemente. Al tempo stesso, però, questo indica anche la via per risolverlo: un modello democratico che riconosca sì le differenze, ma dentro l’orizzonte dell’appartenenza a una stessa comunità nazionale».Ma non è la stessa questione che oggi affiora un po’ ovunque nella sponda sud del Mediterraneo?«Sì, è il problema storico di tutti i Paesi post-ottomani. Ma a differenza della Turchia in Medio Oriente accanto all’identità nazionale è debole anche lo Stato. Lo vediamo in Siria dove il venir meno di un regime forte ha fatto esplodere una società in cui sono riemerse tutte le divisioni. È il problema di una storia pluralista non rielaborata in termini di cittadinanza. Che è poi  il grande nodo anche del dibattito sulla costituzione egiziana».Tornando a piazza Taksim: spenti i riflettori sulla protesta che cosa succederà adesso?«La Turchia si è certamente giocata molto in termini di prestigio internazionale, anche se la decisione di questi giorni dell’Unione europea di riprendere a ottobre i negoziati per l’adesione è un fatto che gioverà alla moderazione. Ma il punto vero è che la gente in Turchia vuole stabilità non solo a livello economico ma anche politico. E anche Erdogan dovrà tenerne conto».
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