martedì 24 settembre 2013
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Gino Bartali è stato un eroe esemplare dello sport, ma soprattutto un «eroe silenzioso». Questo è anche il sottotitolo di un libro splendido: La strada del coraggio (pubblicato dalla romana 66THand2ND), scritto dai fratelli canadesi Aili e Andres McConnon. Un saggio che si legge come un romanzo, esistenziale prima che sportivo, denso di informazioni biografiche e testimonianze. Ma sul fronte “testimonianze”, specie quelle che hanno avuto un loro peso per il riconoscimento di Bartali come «Giusto tra le nazioni», non si può trascurare una pubblicazione come Gino Bartali e la Shoah (Edizioni dell’Assemblea della Regione Toscana) di Angelina Magnotta; un’opera essenziale, un lavoro certosino di ricerca storica, in cui affiorano testimonianze poco note persino ai «bartaliani di ferro» come quella resa da Agostino Davitti. Suo padre Antonio venne internato nel campo di concentramento nazista di Dachau, dal quale – sottolinea Agostino – «non usciva anima viva». E invece Antonio Davitti, guardia costiera a Portoferraio (Isola d’Elba) «rastrellato dopo l’8 settembre del 1943», riuscì a scampare alla morte nel lager grazie alla sua passione per il ciclismo e in particolare per quel gran campione del Bartali. Quando venne arrestato, infatti, Antonio in tasca portava solo la foto del suo idolo, lo scatto del Ginettaccio che vinceva in volata nella Reggello-Secchieta. Un cimelio, una foto autografata che però non avrebbe avuto nessun valore per un internato italiano, se non quello sottile della nostalgia dei bei giorni in cui ai bordi delle strade si poteva ancora andare a vedere liberamente passare il Giro o ascoltare alla radio le imprese francesi di Bartali che trionfava al Tour del 1938. E invece quell’immagine del suo eroe, custodita gelosamente come i sentimenti teneri e dolorosi provati per la propria famiglia lontana, furono la salvezza di Davitti e di altri. Il suo carceriere, responsabile dello smistamento dei prigionieri, era un appassionato di ciclismo e uno degli organizzatori di quell’edizione del Tour de France del ’38.Così, la stima incondizionata verso il gran toscano vincitore della Grande Boucle, gli fece proporre l’incredibile baratto: «Se papà gli avesse dato la foto di Bartali – racconta Agostino – quello in cambio gli avrebbe permesso di scegliere i compagni con i quali sarebbe stato trasferito in una fattoria a lavorare “fuori dal campo”». Era un affare di vita o di morte che non ammetteva temporeggiamenti, perciò Antonio diede la sua foto e il soldato tedesco mantenne la parola data: «Dopo due giorni prese i 15 uomini che aveva proposto a mio padre, più altri cinque, i primi che arrivarono, e li mandò alla fattoria». Lì, nutrendosi con latte e patate, Antonio e gli altri riuscirono a salvarsi e a tornare in Italia dalle proprie famiglie. Questa storia Agostino la registrò, facendosela raccontare dalla viva voce di papà Antonio e poi inviò il nastro al suo «eroe silenzioso». Bartali, come al solito, non ne fece parola («Il bene va fatto e non detto»). Così la vicenda di Antonio Davitti è arrivata ai figli del Ginettaccio, Andrea e Luigi, solo nel 2006, in un incontro pubblico al quale chi partecipò ricorda ancora l’abbraccio commosso di Agostino che piangendo disse loro: «C’era un disegno di Dio in quest’uomo, io gli devo la vita di mio padre».
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