lunedì 26 gennaio 2015
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Apuleio, Agostino, Fulgenzio, Marziano Capella: dal II al V secolo d.C. il Nord Africa diviene  -mentre a Roma, sin da Marco Aurelio, si grecizza in cerca d’interiorità-  l’ultima dimora degli dei, della lingua, dei miti e del  latino e già il vivaio  della conciliazione, per il tramite dell’allegoria, del mondo classico e del mondo cristiano.Lucio Apuleio di Madaura, Numidia (125-170 circa d.C.), ha conciliato - dal suo De mundo alle Metamorfosi - filosofia e mito, narrazione e speculazione, lettera e allegoria. La favola di Eros e Psiche, che occupa il centro esatto delle Metamorfosi [essa si distende dalla fine del IV libro (IV.27), percorre tutto il V e si conclude nel VI (VI.24) degli undici libri del romanzo], quasi mise en abyme dell’intera parabola, ha presto goduto - per la sua perfetta compiutezza di apologo - di vita autonoma. Anche nell’Eneide il centro è tenuto, per tutto il VI libro, dal racconto, retrospettivo e insieme profetico, della Sibilla Cumana, dalla storia di Troia a quella, imminente, di Roma. Ma mai il racconto è evaso dal poema per divenire apologo in sé sufficiente, neanche nelle magnifiche riprese di Dante nella sua Divina Commedia. Qui invece Eros e Psiche si staccano, sin dai Mitologiarum libri tres di Fulgenzio, ove la Fabula deae Psicae et Cupidinis già vive, richiamato Apuleio, e culmina in quel levarsi della lucerna sopra il volto dell’amato, in quel discendere d’una goccia che macchia e brucia l’eburnea pelle del dio, in quel venir meno d’un sogno, d’un privilegio, d’un incanto d’amore. Lì si ferma il racconto di Fulgenzio, nel gesto che sarà poi eponimo del mito in tutta la storia dell’arte, dalla Loggia di Psiche alla Farnesina, dipinta da Raffaello e dalla sua scuola nel 1517, proprio quando appare il volgarizzamento delle Metamorfosi tradotto dal Boiardo, a Polidoro da Caravaggio, 1524, e Giulio Romano, e poi tanti altri sino al mirabile Antonio Canova in scultura, compimento e culmine di squisita memoria del classico.   Nel De civitate Dei Agostino ricapitola il canone platonico dei filosofi che più si sono avvicinati alla verità cristiana: «I più illustri fra questi che si dicono platonici sono certamente i greci Plotino, Giamblico, Porfirio e l’africano Apuleio, che si distinse come illustre platonico in entrambe le lingue, greca e latina. Ma tutti questi filosofi ed altri a loro vicini, compreso lo stesso Platone, pensarono che si debbano onorare numerosi dei» (VIII, 12). Apuleio è il filosofo del De deo Socratis, del De mundo, del De Platone et eius dogmate, opere che Agostino ha letto, che cita spesso e che chiosa con puntiglio lungo tutto il suo trattato.Considerato dunque da Agostino erede di Ermete e di Platone, interprete del mondo e dei  demoni, Apuleio sarà presto - in quella solidale officina di miti e di ermeneutica che è l’Africa tardoantica - il principale artefice delle forme narrative e allegoriche in cui può descriversi l’anima: Psiché, secondo le etimologie. Da Marziano Capella a Dante, l’anima è soffio infuso, palpito e lume d’amore, carezza dell’eterno, innocenza e fanciullezza trepidanti: «Esce di mano a lui che la vagheggia / prima che sia, a guisa di fanciulla / che piangendo e ridendo pargoleggia, / l’anima semplicetta che sa nulla» (Purg., XVI, 85-88).A quella tradizione attingendo, Boccaccio così conchiude la sua partecipe lettura dello sguardo di Psiche che si attarda a contemplare il volto di Amore: «L’anima invece […] vede la più bella immagine del marito, ossia le opere estrinseche di Dio, ma non può vederne la forma, cioè la divinità; perché Dio nessuno mai lo ha visto; e con la favilla lo offende e ferisce, cioè col superbo desiderio, per il quale si è fatta disobbediente, e ha creduto alla sensualità, e quindi perde il bene della contemplazione; e così  è separata dall’unione con Dio. Finalmente, pentendosi e amando, […] purificata dalle disgrazie e dalle miserie, dalla superbia presuntuosa e dalla disobbedienza, riprende di  nuovo il bene del divino amore e della contemplazione. E ad esso bene si congiunge per sempre; mentre, lasciate le cose mortali, è portata verso la gloria divina; e qui dall’amore partorisce il Piacere, cioè il diletto e la letizia eterna» (Genealogie deorum gentilium, V, XXII ). Il racconto di Apuleio lascia, nella seconda parte dell’apologo, la contemplazione dell’umano che ascende al divino per far affiorare la lenta malattia, la "nostalgia" alla lettera, del divino che torna all’umano. Eros è malato di Psiche, languisce (V, 28-30, VI, 11); mentre la fanciulla supera - secondo la tradizione - le più ardue prove, obbedendo e resistendo a Venere, sino a che, fedele e tenace, è vinta all’ultima prova  e trasformata in pietra (VI,14).Ancora una volta, sembrerebbe che il potere degli dei prevalga e che - come già nelle Metamorfosi di Ovidio - il destino umano, che voleva elevarsi al divino, ritorni all’indietro, in basso, materia primaria dei quattro elementi, acqua, terra, pietra. Ma non più in Apuleio, al termine del lungo cammino dei miti classici, quando già - lungo i rivoli del platonismo - s’affaccia la novella cristiana: in soccorso di Psiche, essa alito di vita e ormai pietra, plana l’aquila del supremo Giove (VI, 15).Le prove sono così superate, Eros rinasce a vita, il padre Giove ordina a Mercurio di convocare gli dei e inizia un festino di nozze. Il mondo degli dei è così ricondotto alle leggi degli uomini (VI.23). È come se alla curiositas di intelligenza e di iniziazione (di nuove genti e di nuova conoscenza) che aveva guidato gli eroi del mondo antico - appunto da Ulisse al Lucio delle Metamorfosi di Apuleio- succedesse una più riposata pietas di dei domestici, sottoposti al diritto, capaci infine di riconoscere - nelle prove superate da Psiche, nella nostalgia di Eros - la durata di fedeltà, essa sola capace di eternità (VI.23). L’esorbitanza delle passioni, l’abnorme gravame delle punizioni, il furor dell’eccesso, tutto ciò che aveva - da Prometeo a Proserpina - reso così speculari gli dei Superi e Inferi (e che tale ancora verrà letto da Freud, ad esergo della sua Interpretazione dei sogni) si placa infine nel frutto misurato del possibile. E la favola di Psiche ci conduce - quasi ricapitolazione della religione antica - dal sacrificio di immolazione alla pietas di affetti che solo il tempo, non più la grandezza, misura: silente durata di promessa e memoria, fedeltà.
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