mercoledì 1 giugno 2016
Jenkins, da Oriente risorge l’alba della fede
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Sappiamo tutti che il cristianesimo è nato in Medio Oriente. Ma quand’è finita davvero la sua «età d’oro» laggiù? Molto più tardi di quanto pensiamo. Ancora ai tempi di Carlo Magno non c’era paragone tra l’estensione, la vivacità e il dinamismo missionario delle Chiese di matrice siriaca e quelle europee. E persino nell’XI secolo almeno un terzo dei cristiani viveva in Asia, nonostante i musulmani in Medio Oriente ci fossero da secoli.Si intitola La storia perduta del cristianesimo (pp. 352, euro 22) il nuovo libro che la Emi propone di Philip Jenkins, storico americano di origine gallese, acuto osservatore di ciò che si muove nel mondo delle religioni. Nel suo Chiesa globale, la nuova mappa, Jenkins qualche anno fa aveva analizzato lo spostamento verso sud del baricentro del cristianesimo; ora invece mette sotto i riflettori le Chiese di Medio Oriente, Nord Africa e Asia. Indicando una strada inconsueta per comprenderne situazione di oggi: togliere dall’oblio il loro «millennio d’oro», e cioè il periodo dal V al XV secolo.Professor Jenkins, che cosa abbiamo perduto dimenticando quasi totalmente quella stagione del cristianesimo d’Oriente?«Soprattutto il senso di una continuità diretta rispetto alle radici semitiche e mediorientali del cristianesimo, che significa uno schiacciamento sulle tradizioni euro-americane. Vuol dire, ad esempio, aver perso di vista la storia di un lungo e spesso fruttuoso dialogo con altre religioni (compreso il buddhismo). Aver dimenticato i successi strabilianti dei missionari del primo millennio in Asia. Dal punto di vista politico, poi, il cristianesimo occidentale tende a pensarsi in termini d’alleanze strette con gli Stati, piuttosto che imparare a vivere come minoranza sotto regimi non cristiani».

 

L’esperienza del primo millennio può insegnarci qualcosa sui rapporti tra cristiani e musulmani?«Certamente. Studiare i rapporti tra le due religioni mostra quanto fossero strettamente legate nei primi secoli e quante pratiche che oggi ai cristiani europei sembrano bizzarre un tempo fossero proprio cristiane. Per esempio il gesto di prostrarsi durante la preghiera o le tradizioni rigorose legate al digiuno nel mese di Ramadan: sono tutte pratiche che trovano la loro origine nella Quaresima cristiana. Certamente i musulmani hanno perseguitato in maniera dura i cristiani d’Oriente, ma per molti secoli vi sono state anche relazioni armoniose e amichevoli tra le due comunità».Nel libro lei definisce la persecuzione del XIV secolo – quella che segnò l’inizio della fine per l’età d’oro del cristianesimo d’Oriente – come «la grande tribolazione». Quali le similitudini rispetto alla situazione di oggi?«Gli eventi del XIV secolo furono il risultato di un collasso economico e di un cambiamento climatico che portarono molti Stati sull’orlo del crollo e in cerca di capri espiatori ai quali addossare il disastro. Osservandoli così, mi pare che le somiglianze siano parecchie. La principale differenza, però, sta nel fatto che allora il cristianesimo in Medio Oriente era diffuso e numericamente consistente, mentre oggi i cristiani sono pochi. Proprio per questo diventa più facile fuggire. Il risultato temo sarà l’eliminazione del cristianesimo in diversi Paesi nell’arco di alcuni decenni».Lei ha scritto la prima edizione di questo libro nel 2008. Poi è arrivata la guerra in Siria, che ha riportato alla ribalta le comunità cristiane di rito siriaco. Questa tragedia ci ha aiutato a riscoprire quel mondo o continuiamo comunque a guardalo con occhi occidentali?«Molti cristiani occidentali hanno imparato la lezione sulle origini di queste comunità e sulla loro storia. Il problema, però, è che queste percezioni hanno avuto ugualmente un impatto modesto sulle scelte politiche degli Stati occidentali di fronte a questa guerra».Lei scrive che lungo i secoli numerose fedi sono morte, mentre altre sono riuscite a sopravvivere in maniera nascosta. Succederà ancora oggi?«Come dicevo, la differenza rispetto alle epoche precedenti è che a quei tempi i cristiani e gli ebrei erano una presenza folta e difficile da distruggere; per questo poterono facilmente portare avanti in segreto la loro pratica religiosa. Nell’età moderna, invece, i numeri sono così piccoli che anziché nascondersi diventa molto più facile scegliere di emigrare in altri Paesi. Oggi davvero una religione può essere completamente distrutta in un determinato ambito».Guardando all’intera parabola del cristianesimo in Medio Oriente come misurare i «successi» e i «fallimenti» nella storia di una Chiesa?«Le lezione principale è che il tempo si misura sull’ampiezza della storia. Noi guardiamo agli eventi rapportandoli all’arco delle nostre vite, ma i mutamenti più importanti avvengono nel corso di secoli o anche millenni. Oggi assistiamo alla distruzione del cristianesimo in diverse nazioni, come ad esempio l’Iraq; ma allo stesso tempo vediamo comunità cristiane crescere rapidamente nel Golfo Persico. Non siamo in grado di prevedere quale sarà l’esito a lungo termine di questi fenomeni. Sì, oggi sembrerebbe che il cristianesimo stia venendo meno in Medio Oriente. Ma quando tra un secolo guarderemo a questo periodo magari ci accorgeremo che la nostra era un’epoca d’oro, durante la quale la fede stava mettendo radici in nuove regioni».Nell’introduzione all’edizione italiana del libro lei cita proprio queste comunità di lavoratori cristiani immigrati nel Golfo Persico come un grande segno di speranza per il cristianesimo.«I numeri sono impressionanti: in certi Paesi del Golfo i cristiani oggi rappresentano anche il 10 o il 15% della popolazione. E questi numeri sono alti anche in Arabia Saudita e nello stesso Israele. Sono presenze significative che possono segnare l’inizio di nuove importanti tradizioni e comunità».

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