mercoledì 18 gennaio 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
​Era il VI secolo avanti Cristo, quando Ciro il Grande salvò la vita agli ebrei deportati a Babilonia dopo la distruzione di Gerusalemme. L’editto dell’imperatore persiano li liberò e li fece rientrare in patria, consentendo loro anche la ricostruzione del tempio. Quella lontana vicenda, tramandata nei secoli anche dal profeta Isaia, era ben chiara nella mente del diplomatico iraniano Abdol-Hossein Sardari, quando si ritrovò nelle mani la sorte di migliaia di ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Il diplomatico di religione islamica riuscì a usarla per far credere ai nazisti che gli ebrei iraniani, da lui ribattezzati Djuguten, erano in realtà i discendenti di una setta convertita all’ebraismo all’epoca dell’imperatore Ciro, e che per questo non avevano legami di sangue con gli ebrei europei. Da responsabile della missione diplomatica di Teheran nella Parigi occupata dai nazisti, Sardari usò la storia antica per ingannare gli uomini della Gestapo e per salvare gli ebrei iraniani dalla persecuzione e dai campi di sterminio. Con la sua abilità di avvocato riuscì a garantire loro un trattamento speciale sfruttando le contraddizioni insite nelle leggi razziali, mentre in Germania gli "esperti" di tali questioni cercavano di verificare la sua teoria senza giungere a una conclusione univoca. Poi si spinse oltre, compilando personalmente passaporti falsi, impiegando a questo scopo anche le proprie finanze personali e mettendo a rischio la propria vita. Quando Adolf Eichmann in persona, alla fine del 1942, scoprì e denunciò la geniale macchinazione, circa duemila ebrei, non solo iraniani, erano già riusciti a mettersi in salvo con l’aiuto del giovane diplomatico. Sardari è uno dei tanti eroi rimasti a lungo nell’oblio, com’accaduto ad Oskar Schindler, Giorgio Perlasca, Giovanni Palatucci e a tanti altri. Il primo a ricostruire la sua vicenda, una decina d’anni fa, è stato suo nipote Fereydoun Hoveyda, anch’egli un noto diplomatico (partecipò tra l’altro alla stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nel 1948). Sono stati i suoi ricordi a innescare il lavoro di Fariborz Mokhtari, ricercatore al Centro di studi strategici sul Vicino Oriente di Washington, che è recentemente confluito nel libro Lion’s Shadow, appena uscito in inglese. Quella di Sardari è una storia degna di un copione cinematografico: dopo l’invasione della Francia, a lui si rivolse la comunità degli ebrei iraniani che viveva a Parigi. L’Iran, ufficialmente neutrale, aveva interesse a mantenere rapporti commerciali con la Germania e i nazisti avevano dichiarato l’Iran una nazione ariana e compatibile, dal punto di vista razziale, con la Germania. Il diplomatico usò allora la sua influenza e i contatti per esentare i suoi connazionali di religione ebraica dalle leggi razziali, sostenendo che i cosiddetti Djuguten non avevano legami di sangue con gli ebrei europei.Richiamato in patria nel 1941 dopo l’invasione anglo-sovietica dell’Iran, decise di rimanere in Francia al loro fianco, senza stipendio e senza protezione, per proseguire il suo piano e salvare centinaia di esseri umani. Come Eliane Senahi Cohanim, che aveva solo sette anni quando riuscì a scampare alla deportazione insieme alla sua famiglia, grazie ai passaporti falsi e ai documenti di viaggio forniti da Sardari. «Mio padre ripeteva sempre che se ce l’abbiamo fatta è stata solo per merito suo», ricorda la donna, ormai quasi ottantenne. Tra le tante testimonianze e gli inediti d’archivio citati o riprodotti nel libro di Mokhtari, c’è anche la lettera con la quale Eichmann definisce la tesi di Sardari «il solito trucco degli ebrei», un documento citato anche negli atti dello storico processo all’architetto dell’Olocausto. Ciononostante, per decenni la Storia si è dimenticata di un eroe politicamente scorretto sia per gli arabi che per gli ebrei, e a lungo si è cercato di cancellarne la memoria. Nel dopoguerra Sardari non ricevette alcun riconoscimento, mentre la rivoluzione khomeinista lo spodestò della pensione e di tutte le sue proprietà, facendolo morire povero e sconosciuto a Londra, nel 1981. «Non ho fatto nient’altro che il mio dovere, che era quello di salvare gli iraniani. Tutti, anche quelli di fede ebraica», ebbe modo di spiegare. Prima di essere celebrato in questo libro, il suo coraggio era stato ricordato nel 2004 con un riconoscimento postumo conferito dal Centro Simon Wiesenthal. Invece il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, anche a causa delle tensioni tra Israele e Teheran, non ha ancora deciso di annoverarlo tra i "Giusti dell’Islam". Eppure la sua vicenda, figlia di una cultura millenaria del rispetto e della tolleranza, rappresenterebbe una risposta chiara e inequivocabile al negazionismo del presidente iraniano Ahmadinejad.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: