giovedì 20 agosto 2015
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James Bradburne chiama uno «tsunami di attenzione» quello che ha investito i venti nuovi direttori dei principali musei statali, nominati martedì dal ministro Dario Franceschini. Ma il neodirettore della Pinacoteca di Brera definisce «sbagliata» la polemica sul numero di stranieri: «La cosa importante non è tanto dove uno è nato quanto il profilo e l’esperienza della persona scelta. Prendiamo Londra: al Victoria Albert Museum c’è un tedesco, alla National Gallery un italiano, alla National Portrait Gallery un americano. La cosa importante è se il profilo è adeguato alla sfida».Davvero non c’erano italiani adeguati?«Io penso che sia stata la dichiarazione della volontà di cambiare seriamente un modello gestionale: una trasformazione che riguarda il quadro delle responsabilità, anche finanziaria. Se l’autonomia dei musei è vera, allora siamo davanti a una autentica rivoluzione. Gli italiani sono molto competenti e rispettati in tutto il mondo. Ma molti di loro sono cresciuti in un singolo sistema, e non hanno esperienza di altro. Se cambia il modello bisogna cercare chi ha esperienza diverse. Io vivo in Italia da 10 anni. Non credo che il fatto di essere nato a Toronto o di essere cittadino britannico faccia la differenza, ma il fatto di avere gestito musei in altri paesi con differenti modelli di gestione sì. Per questo la polemica va rovesciata».In quale senso?«Io sarei felice piuttosto di vedere italiani che tornano nella loro terra con competenze internazionali. Conosco italiani che sono fuggiti da questo paese perché non potevano esprimere la loro creatività. Se adesso credono giusto tornare, vuol dire che qualcosa è cambiato».Nuovi direttori, nuove competenze, nuova autonomia. Ma la macchina museale è davvero nuova?«Questa è la domanda giusta: dove sono i confini dell’autonomia? Non abbiamo una risposta: dobbiamo essere noi direttori a spingere sui confini, vedere dove sono i limiti. Non posso parlare per tutti, ma penso che sia io che gli altri abbiamo accettato questa sfida perché crediamo che questa offerta di autonomia sia stata fatta in buona fede. Ma neppure il ministro sa cosa accadrà. Tocca a noi spingere, lottare, perché questa autonomia a sia reale. Ci saranno ostacoli. Ma sindacati ci sono anche in Gran Bretagna, in Francia...»Possiamo considerare il suo operato a Palazzo Strozzi come un modello della sua gestione a Brera?«Sì. A Firenze ho dimostrato che un modello autonomo può funzionare. Palazzo Strozzi non è una fondazione privata ma pubblico-privata, con parità tra i due partner. Il bilancio era dato da tre fonti, in proporzioni uguali: un terzo fondi pubblici, un terzo contributi privati, un terzo ricavi propri. A Palazzo Strozzi ho sempre fatto servizio pubblico. Ma solo la parità di responsabilità ha consentito coerenza e apertura altrimenti impossibili».La gestione economia a Brera però non potrà essere mutuata in toto su quella fiorentina.«La pinacoteca ha una grande collezione. Ma prima dell’autonomia aveva anche responsabilità di tutela, e questa la sganciava dall’obiettivo di avere ricavi. Che invece dovranno aumentare. A differenza di Palazzo Strozzi, la parte pubblica, la cui responsabilità cade sul governo, deve restare preponderante: penso intorno al 60-65%. L’autonomia dà l’opportunità di invitare i privati, la cui presenza dovrebbe a mio avviso essere intorno al 20-25%. E dovranno aumentare anche i ricavi propri: non maggiorando il prezzo biglietto ma individuando altri modi per creare valore della collezione. In questo modo potremmo far crescere il bilancio dagli attuali 10 milioni di euro a 12-13 milioni circa».Il traino resta pubblico...«Ciò che è importante è la logica: che non è quella della privatizzazione ma della collaborazione, totale. La mia missione è riannodare la vita del museo con quella del mondo contemporaneo. Questa è la ragione giusta di un’autonomia in progressiva estensione. Con il modello di gestione precedente non potrebbe essere fatto. È la grande sfida: ascoltare, collaborare, trovare sinergie per rimettere il museo al centro del mondo».
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