sabato 11 gennaio 2014
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Ileana Malancioiu, nata nel 1940 a Godeni, Ages, vive a Bucarest ed è una delle voci più alte della poesia romena di oggi, una poesia di grande tradizione, con autori come Eminescu, Blaga, Barbu. Autrice di una vasta opera poetica è anche saggista, dottore in Filosofia con la tesi «Tragico senso di colpa» (tragici greci, Shakespeare, Dostoevskij, Kafka). La sua attività di giornalismo culturale fu totalmente censurata dal regime comunista, ma i suoi quasi venti libri di poesia sono stati tradotti in varie lingue, tra cui lo svedese. È stata invitata in Italia al Festival Internazionale di Poesia di Genova, curato da Claudio Pozzani, dove è stata tradotta e introdotta da Danilo De Salazar.

 

Ileana Malancioiu è una grande voce poetica proveniente da un Paese, la Romania, che ha una tradizione di poesia alta e complessa. La realtà geografica e culturale del Paese lo rese una sorta di luogo mitteleuropeo meridionale: della Mitteleuropa viennese la Romania conosce l’ampiezza del respiro e il brivido del margine, la percezione di un Oriente al confine, ma a differenza dello spirito gioioso della Felix Austria la letteratura romena è intrisa di esistenzialismo slavo. Per non trascurare la lingua neolatina, e quindi il legame antico con la civiltà di Ovidio e Quasimodo. Oltre a discendere dai grandi della sua letteratura, Ileana Malancioiu rivela affinità con i drammatici e straordinari poeti polacchi Milosz e Herbert, con il serbo Ivan Lalic (una delle voci più alte e misconosciute del Novecento), con una linea poetica in cui dramma esistenziale e meditazione filosofica coesistono. La sua visionarietà è fredda, non allegorica, non barocca, è  impregnata nel quotidiano, ma il ritmo è quello del cinema di Polanski, rapidissimo, trascinante come dal nulla. Il tema del dolore e della necessità di misericordia convivono in lei in una sorta di monade ungarettiana. Quando esprime ribellione politica, il suo verso non lo fa mai in forma ideologica o autocommiserativa, ma coglie nella ferocia dell’oppressore un segno della bruttezza a cui il mondo spesso soggiace. E Ileana Malancioiu trama, sottilmente, quasi nascostamente, per la bellezza».Perché la poesia è necessaria?«La poesia, in quanto creazione, non consta solo di un testo, ma è anche una forma d’esistenza. Così come la disperazione o la santità, essa è umana solo in quanto possibilità, ma si rivela necessaria perché in questa possibilità risiede la speranza che la bellezza oltraggiata possa salvare il mondo, così come diceva Dostoevskij attraverso il personaggio del principe Myskin, che è stato creato sul modello cristico. Mi sembra necessario osservare che tra poesia costitutiva, quella che possediamo come dono innato e implicitamente come necessità, e poem, inteso come trasposizione in versi della poesia interiore, può intervenire la crisi della parola: provocata da un agente esterno, capace di fare impietrire il poeta, o di fargli dire, con Salvatore Quasimodo, “Tutto si travolge, ma i morti non si vendono”; oppure proveniente dall’interno di noi stessi, qualcosa in grado di spegnere inaspettatamente la fiamma di un poeta geniale come Arthur Rimbaud. Rimbaud rappresenta un po’ il caso limite, tanto infelice come uomo quanto felice come poeta, giacché trovò la forza di rinunciare alle sue poesie prima che la poesia rinunciasse a lui, e la sua luce si è così mantenuta viva nei secoli».  Che relazione esiste tra poesia e speranza?«Una relazione molto complicata. Molte volte la poesia esprime la paura che il mondo così com’è possa crollare per mancanza di bellezza, e proietta, in modo diretto o indiretto, il mondo così come dovrebbe essere. Il nesso tra poesia e speranza è ben espresso nei perturbanti versi dell’ode (in metro antico) di Eminescu, che inizia con la confessione “Non avrei mai creduto di imparare a morire”, e si chiude con la preghiera “Affinché possa morire in pace, restituiscimi me stesso”».Può la poesia contribuire ad una rinascita dell’umanità?«Non lo so. Ma so che può contribuire a preservarla, a dispetto di ogni dittatura o crisi morale del mondo all’interno del quale vive il poeta. A differenza di tutte le altre crisi, la crisi della parola esprime l’avvicinarsi del limite, e può essere benefica, poiché dimostra che così non si può più continuare. Esiste il pregiudizio secondo cui le rivoluzioni socio-politiche condurrebbero a una rinascita dell’umanità. Purtroppo, non c’è mai stata una rivoluzione dopo la quale non siano stati traditi gli ideali di chi l’aveva condotta. Ecco il motivo per cui io credo che non si debba mai tradire la propria poesia in nome di una rivoluzione. Il che non significa che non devi opporti alla dittatura, al contrario. Ma credo che la poesia possa fare soltanto rivoluzioni di natura spirituale, e che, in ultima istanza, siano proprio queste a condurre a una rinascita dell’umanità». Lei crede che esista qualcosa di religioso nella poesia?«Sì. Lo stato di grazia determinato tanto dal credo quanto dalla poesia. E il fatto che il mondo del vero poeta, così come il mondo reale, non possa essere spiegato in termini causalistici. Dietro ogni causa esiste qualcosa di molto più grande, che ogni religione spiega a modo suo, sebbene qualsiasi confessione si rapporti in fondo con la paura di morire e la ricerca del segreto dell’immortalità. La nostra religione assimila questo segreto al Figlio di Dio, il quale, facendosi uomo, ricostruisce l’alleanza tra cielo e terra. La paura di varcare la soglia tra questo e l’altro mondo, però, non sparisce, dal momento che anche Gesù Cristo esita sulla sua Croce, e all’ora nona invoca a gran voce: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni”. Trovando il proprio senso nel superamento di questi dubbi struggenti e, in modo implicito, nella resurrezione spirituale, la poesia è sostanzialmente affine alla fede, indipendentemente dal fatto che il suo autore sia più o meno cosciente di ciò. Poesia e religione  puntano entrambe, in modo diverso, alla sconfitta della morte e alla rinascita della vita. Le modalità per raggiungere tale scopo differiscono in modo sostanziale, ma il valore della poesia può contribuire a risvegliare l’interesse per la bellezza dei riti religiosi e, implicitamente, alla risacralizzazione del mondo; mentre i valori del cristianesimo possono offrire un di più alla poesia, qualora si assuma l’incarnazione del Figlio di Dio come massima espressione della sofferenza che caratterizza la condizione umana, alla quale però fa da contrappunto la resurrezione. La luce e la gioia che essa emana offrono un senso alla vita dell’uomo che, come diceva Giobbe, non è che un soffio. Ma, aggiungerei io, un soffio divino».La crisi del Novecento è terribile: nuovi, inusitati totalitarismi e corrispondente desacralizzazione del mondo. La poesia può contribuire a una rinascita spirituale?«La Romania ha conosciuto due dittature: quella di estrema destra, prima, e quella comunista, poi, che è durata circa mezzo secolo. Dopo esserci sbarazzati in qualche modo del comunismo, spero che riusciremo a sbarazzarci in qualche modo anche dei vecchi leader di partito, rientrati nelle stanze del potere dalla porta secondaria dopo i fatti del dicembre ’89. Adesso, poi, viviamo con la paura dei terroristi, che ci è stata inoculata per nascondere le trame del potere. Allora ho capito che il pericolo rappresentato dai terroristi è tanto grande quanto la possibilità d’imputare ad essi gli orrori commessi da altri. Per ora, si vede ad occhio nudo che tra tutti i peccati del mondo in cui viviamo, il peggiore è il brutto. Contro di esso, il poeta può fare effettivamente qualcosa, seppur limitandosi a constatare, come Baudelaire: “Tu le connais, lecteur, ce monstre délicat, / – Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frére!”».Chi ha sperimentato l’oppressione che cosa può dire della poesia come forma di resistenza?«Per quanto mi riguarda, ho fatto ciò che credevo dovesse fare uno scrittore. Ho protestato contro l’applicazione delle tesi culturali imposte da Ceausescu, rischiando così il mio posto di redattore televisivo e mantenendomi al limite della sopravvivenza per quasi un decennio, periodo in cui sono stata “disoccupata senza sussidio di disoccupazione”. In questo arco di tempo ho continuato a scrivere libri in cui non ho mentito né a me stessa, né ai miei lettori. Come conseguenza di ciò, uno dei miei libri, il cui titolo avrebbe dovuto essere Exodus (inteso come estrema forma di salvezza), rimase per ben due anni in mano alla censura, per poi essere pubblicato con il titolo di Ardere de tot (“Olocausto”). Un altro volume, Urcarea muntelui (“La scalata del monte”) – in cui si descriveva la salita di un intero popolo sul Golgota – fu ritirato dalle librerie per ordine della Securitate, che impose ai critici persino il divieto di commentarlo. Dunque, non posso neppure dire di aver condotto una vera e propria resistenza culturale, né tanto meno di essere stata una dissidente».

 

L'INEDITO NON POSSO LAMENTARMI Non posso lamentarmi per la fame, Il mio cibo dai cieli viene, Ma temo per il dio Che si ciberà di me. Sono troppo nera, sono troppo triste, Il mio sacrificio gli potrà sembrare Anche più scarno di quanto non sia, Anche peggiore, e più amaro. Il sangue potrebbe versarlo In un bel campo di papaveri, La carne si potrebbe lasciarePer distribuirla ai poveri. Traduzione di Danilo De Salazar

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