mercoledì 15 gennaio 2014
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Il problema della guerra, di quella guerra così diversa da tutte le precedenti e così totalitaria nel suo impatto con la società, divenne sfida centrale per tutte le fedi religiose e laiche, in Italia come nel resto dell’Europa. E anche se autorità politiche, militari ed ecclesiastiche invocarono Dio a benedire le loro armi, e talvolta qualcuno giunse ad asserire che Dio era dalla propria parte, il dubbio di essere nel vero e nel giusto scosse la coscienza dei cittadini e diede inizio a un lungo processo di revisione del rapporto tra valori religiosi e giustizia e pace tra gli uomini che con fasi alterne caratterizzò tutto il secolo del Novecento [...].L’episcopato cattolico italiano si mostra in generale patriottico, nel senso di invitare i fedeli all’obbedienza verso l’autorità e a compiere il proprio dovere al fronte e nel Paese. Pochi furono i vescovi decisamente neutralisti; per altro verso, solo un ristretto numero di vescovi ebbe atteggiamenti di tipo nazionalistico. La tradizionale distinzione tra guerra giusta e ingiusta, applicando il primo termine all’intervento italiano, trovò ancora eco in alcuni autorevoli ecclesiastici, ma prevalse l’orientamento ad affrontare la situazione di fatto con un patriottismo di obbedienza, rimandando per così dire alla fine del conflitto più ponderata riflessione.Il comando supremo aveva intanto istituito il ruolo dei cappellani militari, che presieduti da un vescovo castrense avevano il compito di assistere spiritualmente i combattenti in trincea, e indirettamente di sostenere patriotticamente il morale dei soldati. Accanto ad essi vi furono presenze spontanee di rabbini e pastori protestanti. Lo stuolo dei cappellani, oltre duemila, cui si aggiunsero preti soldati addetti alla sanità, come Angelo Roncalli, compirono una meritoria opera religiosa, ma constatarono quanto la chiamata all’uso delle armi e al sacrificio della vita ponesse seri interrogativi sul rapporto tra la fede e lo Stato e quanto la guerra fosse odiata e auspicata la pace.Sintomo di quanto la comunità ecclesiale risentisse della prova bellica è il fatto che le correnti più aperte al rinnovamento civile e religioso parteciparono con consapevolezza e , convinzione all’interventismo democratico – è il caso della Lega democratica e del gruppo vicino all’esperienza modernista, almeno nella sua maggioranza –, il sentimento neutralista, invece, faceva breccia in larghi strati popolari, in un certo senso anche conservatori sotto il profilo religioso. Importante è anche considerare le manifestazioni della pietà popolare in raffronto ai riti celebrati al campo o nei paesi di provenienza dei combattenti. La pace, che diverrà fattore decisivo nel cattolicesimo del Concilio Vaticano II, nella Prima guerra mondiale è più presente nel sentimento popolare, specialmente nell’area contadina e meridionale, che nella coscienza della borghesia cittadina e dei credenti più aperti al mondo moderno ed è subordinata alla giustizia e al diritto internazionale e ai valori nazionali.Nel corso di tre anni e mezzo di guerra tanto i soldati al fronte quanto i cittadini all’interno del Paese dovettero confrontarsi con il loro credo religioso, in termini del tutto diversi dal pur recente passato. Quel tipo di conflitto, per le sue caratteristiche di coinvolgimento totale della società e per il modo in cui venne condotto dall’autorità politica e dai comandi militari, non poneva soltanto interrogativi di ordine generale e di professione pubblica della fede, ma interpellava singolarmente il cittadino e via via in un crescendo per gradi dal basso: la famiglia, la comunità locale, gli ambienti di vita sino a raggiungere il livello di vita collettivo nazionale. La prospettiva deduttiva dai vertici ecclesiastici e politici si rovesciava in un procedimento induttivo: ciò non era un fenomeno esclusivamente italiano, ma, per le particolari peculiarità del cattolicesimo italiano, fu da noi molto rilevante [...]. L’intera società italiana, o meglio la maggioranza dei cittadini venne coinvolta nei sacrifici, nelle sofferenze e nei rischi della guerra, anche in quei settori che non erano stati ancora integrati nel tessuto e nello sviluppo unitario del Paese. Furono allora asseriti con forza i principi del dovere verso la patria, i principi che attenevano alla sfera civile, laica o religiosa, ma le risposte non potevano che venire dai convincimenti personali. Se si leggono gli epistolari dei combattenti e dei prigionieri, ufficiali e sottufficiali, e oggi anche di molti semplici soldati, editi negli ultimi venti anni, ci si rende conto di quanto il fattore religioso fosse presente non solo per l’interrogativo sulla morte di tanti compagni, degli stessi nemici e sulla probabilità della propria, ma anche comunque sul senso di quello scontrarsi, di quel passare innumerevoli mesi in trincea, di quella natura violentata di quel poco terreno conquistato a caro prezzo e talvolta riperduto, di quella lacerazione degli affetti. Per i primi due anni le risposte dei singoli sono incerte, provvisorie e persino fatalistiche: la fede non è una scappatoia o un rifugio quasi irrazionale, è più spesso un ancoraggio, il luogo del proprio radicamento spirituale e umano, uno spazio che i cappellani militari e la famiglia lontana aiutano a tenere aperto, ma che resta personale, interiore, schivo, quasi esclusivo. Una sorta di vita parallela a quella delle mostrine del reggimento, dell’esecuzione degli ordini, del compimento del dovere, talora anche motivo di dedizione e di coraggio. Dalla primavera del 1917, per gli echi internazionali, e soprattutto per il peso delle grandi battaglie dal Trentino all’Isonzo, le considerazioni religiose si colorano di speranze di pace, anticipando in un certo senso la constatazione dell’inutilità della strage che il papa Benedetto icasticamente definì nella sua nota dell’agosto 1917 ai capi delle nazioni belligeranti. Pace, vittoria, umanità non configgono tra loro, sono per i credenti un tutt’uno. La vittoria italiana è desiderata proprio perché è premessa di pace e via per ritrovare i ritmi dell’umanità. Il concetto di nemico sfuma nelle percezione dell’ostacolo che si frappone alla conclusione del conflitto. La propaganda nazionale proprio in quella fase cruciale andava intensificandosi e si alimentava dei timori di scarso amore di patria nei combattenti e nel paese, fino a individuare talvolta forme di disfattismo.Di fatto il rapporto tra religione e società si era andato trasformando in quello, assai più gravido di conseguenze tra fede e patriottismo. Le autorità militari facevano molto affidamento sull’opera del clero al fronte e nel paese per sostenere il morale delle truppe e la tenuta della popolazione civile. Un luogo abbastanza comune degli studi italiani sulla Grande guerra è che mentre il Papa insistentemente invocava una soluzione pacifica del conflitto, buona parte del clero avrebbe avuto un ruolo rilevante nel predicare l’amore di patria quale corollario necessario della fede. Sono noti alcuni casi di pronunciamenti di vescovi e cappellani militari dai toni riecheggianti le parole chiave del nazionalismo. Alcuni di questi prelati e sacerdoti ebbero poi simpatie per il fascismo per le sue imprese coloniali e per la partecipazione alla guerra di Spagna. Sarebbe però errato stabilire una linea di continuità o di evoluzione tra i comportamenti di una ristretta cerchia di ecclesiastici negli anni della guerra e le prese di posizione degli anni Trenta in clima concordatario.Tra il 1915 e il 1918 la Chiesa italiana ebbe nel suo complesso in tema di patriottismo un atteggiamento più cauto e moderato rispetto a quanto si verificò in Belgio e in Francia. Nella Francia, pur caratterizzata da laicità istituzionale e politica, la mobilitazione patriottica del clero e la propaganda dell’autorità religiosa tra soldati e fedeli utilizzò toni di forte stampo nazionalista [...]. In Italia il patriottismo, non solo per i credenti, per potersi affermare aveva bisogno che il paese e la sua struttura politica e sociale costituissero in concreto agli occhi dei comuni cittadini in ogni sua parte la patria così non era ancora. Proprio la crisi dello Stato liberale, nella decisione e nella conduzione della guerra, almeno sino a Caporetto e alla invasione austro-tedesca del Friuli e di larga parte del Veneto, ritardò nella cattolicità italiana l’uscita dall’apparente contraddizione tra il compimento del dovere e l’aspirazione alla pace [...].Con Caporetto mutò radicalmente il carattere della guerra italiana, ma non ci fu una conversione patriottica generale nel senso nazionalistico. Dalla finalità del raggiungimento dei confini naturali e dell’abbattimento del dominio austriaco su altri popoli si passò alla meta della resistenza e della conseguente liberazione dei terreni invasi. Il patriottismo, per molta parte dell’opinione pubblica, diveniva esigenza di solidarietà popolare e di speranza di liberazione non solo delle terre invase, ma anche dalle sofferenze e dalla violenza delle armi.La retorica abusata dalla propaganda pro aris et focis mostrava tutta la sua inanità: soldati e cittadini allungavano lo sguardo a quanto sarebbe successo dopo la resistenza e dopo la liberazione. La vittoria del 4 novembre 1918 fu il frutto di un tipo diverso di patriottismo, quello della gente comune, nel quale i credenti meglio si riconoscevano: un’utopia di pace e di nuova società al di là dei soli aspetti materiali. A ben vedere, mentre la questione romana era in via di risoluzione, il rapporto tra religione e società si trasferiva dal piano delle istituzioni a quello delle storie personali e, attraverso di esse, e per gradi intermedi territoriali e sociali, a quello della collettività nazionale. È un percorso che potremmo definire di laica incarnazione nelle donne e negli uomini di un Paese ancora in cerca della propria anima unitaria. Alla fine del conflitto, a vittoria conseguita, tutte le strade erano aperte, ma non quella della precedente Italia liberale, e neppure quella di una religione delle patrie. Si affermavano i partiti popolari quale primo passo verso una società democratica, anche se ben presto travolti dalla violenza fascista e dai loro stessi errori, e nella Chiesa l’appello alla pace di Benedetto XV si traduceva in un progetto di nuovo tipo missionario, tanto nell’enciclica Pacem, Dei munus pulcherrimum del 1920, quanto in un diverso modo di organizzare le missioni nel mondo. Ma anche nell’area cattolica, si ebbe in seguito un ritorno ad antiche relazioni di tipo istituzionale con lo Stato. La guerra mondiale, quel tipo di guerra, per avere chiuso un’epoca richiedeva profondi mutamenti nella cittadinanza e nella vita religiosa; ma tanto la democrazia, quanto la laicità cristiana erano ancora lontane dall’affermarsi in Italia.
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