martedì 4 dicembre 2012
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«Non abbiamo una solida evidenza scientifica sulla creazione ex nihilo; questa rimane un argomento da studiare con gli strumenti della filosofia. I continui processi dell’evoluzione della Terra e della vita sono ormai eventi scientifici ben stabiliti. E servono come elementi essenziali della creazione permanente». Ecco i passi salienti della relazione su scienza e fede, tenuta l’8 ottobre davanti al Pontefice e al  Sinodo dei vescovi, dal premio Nobel Werner Arber. Le parole del microbiologo svizzero sono oggetto di attenta riflessione perché un anno fa Benedetto XVI lo ha nominato presidente della Pontificia Accademia delle Scienze. Arber è considerato uno dei padri della «rivoluzione biologica» del XX secolo. È professore emerito al Biozentrum dell’Università di Basilea, e il Nobel per la Medicina l’ha ottenuto – nel 1978 – per aver scoperto gli «enzimi di restrizione», che sono cardini dell’ingegneria genetica. E fra tre mesi circa, il 21 febbraio 2013, saranno celebrati i sessant’anni  dalla scoperta della «doppia elica» (la struttura del Dna). La data diventa un crocevia delle dispute sulla scienza. Nella sua relazione al Sinodo, Arber ha esposto la tesi secondo la quale la teoria neo-darwiniana non è incompatibile con il pensiero della Chiesa e, in particolare, con la creatio in fieri o creazione continua. Il premio Nobel afferma che oggi le scoperte scientifiche aumentano perché in larga misura si basano sull’osservazione della evoluzione in atto. «Anche gli autori dell’Antico Testamento erano consapevoli delle varianti genetiche. I personaggi descritti nella Bibbia non erano affatto dei cloni geneticamente identici ad Adamo ed Eva». Alcuni passaggi dell’evoluzione restano  tuttavia  ancora avvolti in un alone di mistero , tanto che nei dibattiti ci si chiede perché in certi casi «l’evoluzione si nasconda». Ed ecco la spiegazione fornita dal presidente della Pontificia Accademia delle Scienze: «Nel corso degli ultimi decenni, l’investigazione genetica ci ha fatto capire meglio le variazioni spontanee. Esse rappresentano il comando che sospinge l’evoluzione biologica. Oggi sappiamo che la realtà vivente opera attivamente perché l’evoluzione biologica sia un processo molto lento ma certamente saldo. In altre parole, la natura vivente ha il potere intrinseco di evolvere». Sul fronte scientifico c’è chi pensa che scienza e fede siano troppo diverse fra loro per poter dialogare proficuamente anche sull’evoluzione. Ma la stessa Pontificia Accademia delle Scienze che Arber presiede testimonia che il dialogo tra scienza e fede non è una contraddizione in termini. Degli 80 scienziati che ne fanno parte, 44 sono premi Nobel. L’appartenenza all’autorevole consesso degli accademici si basa sull’eccellenza scientifica e sulla libertà di idee. «L’Accademia – dice Arber – segue il processo della conoscenza scientifica e la potenziale applicazione di questa conoscenza; informa la Curia sui vari progressi, e spesso l’informazione è accompagnata da speciali raccomandazioni rivolte alla Chiesa. Tutto ciò conduce sovente al dialogo tra scienza e fede, che noi consideriamo complementari l’una all’altra cioè elementi essenziali dell’umana conoscenza, specie se agiscono insieme». Secondo il professor Arber, è per valide ragioni che scienza e fede sono chiamate a cooperare. Perché non dire che oggi «Gesù sarebbe favorevole all’applicazione della scienza per il bene – a lungo termine – dell’umanità»? D’altro canto, la scienza ha bisogno di sostegno: finora «non ha maturato una nozione precisa dei fondamenti della vita» né ha saputo dare risposte pertinenti agli interrogativi dell’uomo. L’aiuto reciproco può scaturire soltanto da un dialogo franco e non transitorio; un esempio è offerto dallo scambio di conoscenze che avviene nella Pontificia Accademia delle Scienze, senza limitazioni dovute a nazionalità o religione (Werner Arber è protestante). Inoltre l’Accademia vaticana discende da quell’Accademia dei Lincei – la più antica del mondo – che nel 1603 inaugurava la scienza moderna. (Nel 1611 vi era iscritto Galileo). Ma perché sono entrati nella storia della medicina gli «enzimi di restrizione» scoperti dal professor Arber? Fino al 1980, 20 milioni di pazienti diabetici dovevano ricorrere all’insulina estratta da buoi e maiali. Poi, anche grazie a Werner Arber, si è riusciti a far produrre insulina umana dalle cellule di un batterio. I biologi prelevano un frammento di Dna umano che «codifica per l’insulina» (cioè avvia un processo che porta all’insulina). Lo inseriscono in una molecola maneggevole e utilissima, il «plasmide», che va a moltiplicarsi all’interno di un batterio. Sarà questo a fornire insulina umana su scala industriale. Gli enzimi di restrizione permettono di «tagliare» il frammento di Dna nel punto giusto. Sulla base del «taglia e cuci» genetico che Arber ha sperimentato più di 40 anni fa, la biologia molecolare lascia intravedere progressi ma anche rischi. Tuttavia, per il presidente dell’Accademia non c’è motivo per vedere buio il futuro: «Gli standard di valutazione del rischio traggono un enorme vantaggio dall’accresciuta conoscenza dei geni. Se basata scientificamente, un’attenta valutazione delle innovazioni è sufficiente ad evitare i rischi che potrebbero derivare dalle sperimentazioni tecnologiche». A queste condizioni,  Arber alza il disco verde anche agli Ogm.
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