lunedì 27 aprile 2015
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​Galileo scrutava i cieli e disegnava, dipingeva con le parole contemplando i segreti della natura, immensa wunderkammer aperta sul creato: «Questa superficie lunare, là dove è segnata di macchie come coda di pavone sparsa d’occhi cerulei, appare somigliante a quei vasetti di vetro, che immersi ancor caldi in acqua fredda, acquistano una superficie  screpolata e ondosa, per cui dal volgo sono chiamati “bicchieri di ghiaccio”» (Sidereus nuncius, 1610). E quello scrutare, più che da meraviglia è dettato da regole, sottoposte a prova davanti alla “carta bianca” dei cieli: «Pigliate dunque un foglio e le seste: e sia questa carta bianca l’immensa espansione dell’universo, nella quale voi avete a distribuire ed ordinar le sue parti con forme a che la ragione vi detterà» (Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, 1632). Anch’egli è un Michelangelo dell’universo (nasce, come Shakespeare, l’anno della morte del Buonarroti, 1564, e morirà ad Arcetri nel 1642), un titano – come Pascal – del “saggiare” senza posa l’invisibile.E poiché Galileo cerca il “grado zero” di uno sguardo senza pregiudizio che avrebbe la trasparenza dell’“identico a sé”, non può a sua volta che far ricorso allo stupore sorgivo della parabola di Psammetico (secondo le Storie di Erodoto; apologo che sarà poi quello di Kaspar Hauser) per autorizzare i “mondi possibili della luna”: «E sì come io son sicuro che a uno nato e nutrito in una selva immensa, tra fiere ed uccelli, e che non avesse cognizione alcuna dell’elemento dell’acqua, mai non gli potrebbe cadere nell’immaginazione  essere in natura un altro mondo diverso dalla  terra [...]; così, e molto più, può accadere che nella Luna, per tanto intervallo remota da noi e di materia per avventura molto diversa dalla Terra, sieno sustanze e si facciano operazioni non solamente lontane, ma del tutto fuori d’ogni nostra  immaginazione» (Dialogo).La sua esperienza di disegnatore iscritto Accademia delle Arti del Disegno (1613) affiora dovunque. Così nel Saggiatore (1623), per rendere visibile all’occhio della mente l’oggetto remoto nella vastità dei cieli, non può che elevarlo, geometrica astrazione, isolata nello spazio che si è fatto assorta, zenitale, forma d’una “metafisica” piazzetta alla De Chirico: «Sappiamo di sicuro ch’una nubilosa non è altro che uno aggregato di molte stelle minute, invisibili a noi; con tutto ciò non ci resta invisibile quel campo che da loro è occupato, ma si dimostra in aspetto d’una piazzetta biancheggiante, la qual deriva dal congiungimento de’ fulgori di che ciascheduna stellina s’inghirlanda». Accade talvolta, in qualche ralenti galileiano, di trovare lassù, agli orli della «smisurata luce del Sole», là «una quasi cipolla» e qui «una gran caraffa» e «una boccia di vetro», tra opalescenze e ironie, «reflessioni e refrazzioni» alla Morandi: «E però veggiamo spesso che in una macchia si posson numerare dieci e più di tali corpicelli minuti, che sono di figure irregolari e ci si rappresentano come fiocchi di neve o di lana o di mosche volanti; variano sito tra di loro, ed or si disgregano ed ora si congregano [...]: imperocché nell’orbe eccentrico del Sole vi è costituita una quasi cipolla composta di molte grossezze, una dentro all’altra, ciascheduna delle quali, essendo tempestata di alcune piccole macchie, si muove» (Dialogo).Come nelle più argute metamorfosi del Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro, anche l’esperienza della scienza attinge alla stessa retorica barocca della “bella bruttezza”, dell’“imo” accostato al “sublime”: stelle e sputi uniti dalla medesima «reflession del Sole»: «E caminando in campagna contro al Sole, in quante migliaia di pagliuzze, di sassetti, un poco lisci o bagnati, si vedrà la reflession del Sole in aspetto di stelle splendentissime? Sputi solamente in terra il Sarsi, ché senz’altro, dal luogo dove va la reflession del raggio solare, vedrà l’aspetto d’una stella naturalissima» (Il Saggiatore). Macrocosmo e microcosmo, cannocchiale e microscopio si uniscono, nella stessa curiositas, nell’indagine di Galileo, attento alla cicala quanto alle comete: «E la difficoltà dell’intendere come si formi il canto della cicala, mentr’ella ci canta in mano, scusa di soverchio il non sapere come in tanta lontananza si generi la cometa» (Il Saggiatore).
Le teorie di Galileo trovarono opposizione nella Chiesa: processato a Roma, fu condannato e abiurò nel 1633; ma il suo metodo fondò la scienza moderna non meno – come ben vide il Leopardi assumendolo a faro nella sua Crestomazia – che la prosa italiana: «Et all’incontro, eccovi nella più profonda e tenebrosa notte, dal muto silenzio di deserta solitudine soppresso l’ardire e promosso il timore e la paura. Ma se attenderemo quali cose rischiarino, e quali perturbino, la facultà discursiva et speculativa dell’intelletto nostro, troveremo come le tenebre, la quiete, il digiuno, il silenzio et la solitudine mirabilmente la eccitano» (Lettera a monsignor Piero Dini «circa i 4 Pianeti Medicei», del 21 maggio 1611; antologizzata nella sezione “Filosofia speculativa” della Crestomazia del Leopardi).Abiurò, senza dramma, sapendo che tutto è mutazione: «Per me reputo la Terra nobilissima ed ammirabile per le tante e sì diverse alterazioni, mutazioni, generazioni etc., che in lei incessabilmente si fanno; e quando, senza esser suggetta ad alcuna mutazione, ella fusse tutta una vasta solitudine d’arena o una massa di diaspro, o che al tempo del diluvio, diacciandosi l’acque che la coprivano, fusse restata un globo immenso di cristallo, dove mai non nascesse, né si alterasse o si mutasse cosa veruna, io la stimerei un corpaccio inutile al mondo» (Dialogo).
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