sabato 18 agosto 2012
​Lo spirito multietnico dell'università medioevale contro le «identità assassine» del passato. L'intervista all'ex rettore della Sorbona, Jean-Robert Pitte.
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«Esiste incontestabilmente una civiltà europea, che può essere vista pure come una federazione di civiltà storiche o un mosaico di culture, ma sarebbe sciocco cercare delle frontiere esterne precise, dato che quest’insieme è da sempre organico, aperto ed evolutivo». Parola di Jean-Robert Pitte, geografo e saggista di fama, ex rettore della Sorbona, oltre che presidente dell’associazione che promuove il Festival internazionale di Geografia di Saint-Dié-des-Vosges e autore di rapporti presso l’Unesco sul patrimonio mondiale, in particolare quello gastronomico. In Francia, è uscito da poco Une famille d’Europe (Fayard), una ricostruzione storica appassionante, sul filo dell’albero genealogico transeuropeo dell’autore, che è pure una bella lezione sulla ricchezza culturale del continente.Professor Pitte, per lei l’Europa è un «fazzoletto di destini incrociati». Una specificità del continente?Non proprio, dato che ad esempio l’Estremo Oriente ha anch’esso conosciuto una forte densità di scambi, con popoli che si debbono reciprocamente molto. Ma è vero che soprattutto l’Europa, dopo tanti conflitti, sembra oggi comprendere finalmente che tutti i popoli che la compongono sono meticci. L’interesse insito negli scambi reciproci non esclude affatto il desiderio legittimo di conservare la propria identità locale o nazionale, a condizione che essa resti evolutiva e non si richiuda nelle "identità assassine" del passato, per riprendere l’espressione dello scrittore Amin Maalouf.La caduta della Cortina di ferro ha segnato una svolta nella percezione di questo destino comune?Certamente. Oggi, si viaggia molto di più fra Est ed Ovest e soprattutto scopriamo con stupore nell’Est tante persone che hanno conservato gelosamente, nonostante tutto, una visione dell’Europa come casa comune. Personalmente, mi hanno commosso gli incontri con tanti rumeni, più o meno giovani, rimasti a lungo confinati nel proprio Paese, ma perfettamente francofoni. Nella città di Jassi, al confine fra Romania e Moldavia, esiste persino un dipartimento universitario di geografia dove si è insegnato fin dall’inizio del Novecento in francese, anche durante l’epoca comunista. È solo una delle infinite lezioni di resistenza che abbiamo ricevuto dall’Est.Con la crisi, si torna nondimeno a parlare dei rischi di frattura fra un’Europa del Nord rigorosa a livello contabile e un’Europa mediterranea meno virtuosa...È vero, ma dovremmo soprattutto renderci conto in questa fase che la dimensione economica della crisi è solo la parte emersa dell’iceberg. A mio parere, si tratta di una crisi innanzitutto morale. Essa riguarda la nostra stessa concezione del destino umano. Quando s’impone come ideale principale e talora unico quello di consumare ogni giorno un po’ più e di vivere materialmente meglio, prima o poi la macchina si rompe. Si tratta naturalmente di esigenze legittime, ma che non possono restare l’unico orizzonte.La crisi sta comunque facendo emergere delle colorazioni distinte fra i Paesi europei? La storia europea degli ultimi tremila anni mostra che esiste ancor oggi una frontiera culturale, non politica, fra un’Europa del Nord non romanizzata, tardivamente cristianizzata e poi confluita in gran parte nella Riforma, e un’Europa del Sud cattolica o ortodossa che non ha la stessa concezione del destino umano, del denaro, della responsabilità individuale. I cattolici, più propensi alla fiducia, il che è straordinario sul piano esistenziale, rischiano più dei protestanti di dimenticare la dimensione della responsabilità individuale. Oggi, poi, i non credenti e non praticanti eredi della cultura cattolica tendono a dimenticarla del tutto. Si pensi al caso francese, molto paradigmatico, dove la gente attende tutto dallo Stato: uno Stato provvidenza, appunto, erede senza più rendersene conto di una fiducia verticale. L’Europa protestante conserva invece una concezione più rigorosa della responsabilità, individuale e collettiva, per molti aspetti vicina a quella confuciana. Questa diversità europea è una ricchezza, non un limite. L’Europa di domani potrà beneficiare al meglio degli apporti e dei pregi di entrambe le culture.In che modo?I protestanti potrebbero apprendere a confidare un po’ più nella Provvidenza divina. Senza questa fiducia, la vita rischia di diventare un orrore. Ai cattolici e ai loro eredi non credenti, non guasterebbe una dose rinforzata di rispetto delle regole, di senso dell’onore, di responsabilità individuale. Chi sporca, pulisce.L’«Erasmus» e altri progetti universitari sembravano l’avanguardia di una nuova Europa solidale, ma hanno poi deluso tante speranze. Che ne pensa? Patiamo in effetti una visione molto riduttiva degli scambi. Agli studenti, in sostanza, si è detto troppo spesso che un soggiorno Erasmus all’estero è utile soprattutto per perfezionare un’altra lingua, senza enfatizzare tutto il resto. In Francia, addirittura, mi sono accorto che l’Erasmus è talora percepito quasi come una punizione: per poter trovare un giorno un lavoro interessante, si deve fare lo sforzo di soggiornare all’estero. Ma l’Europa significa pure e soprattutto sprovincializzarsi, aprirsi. Dobbiamo imperativamente recuperare in pieno lo spirito più autentico dell’università europea, fondata fin dal Medioevo sulla circolazione delle persone e delle idee. Si pensi a Bologna, Padova, alla Sorbona, ad Oxford e Cambridge, con i loro antichi collegi e foresterie per accogliere studenti e docenti stranieri. Per farsi le ossa, l’Europa ne ha un insopprimibile bisogno.
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