venerdì 2 gennaio 2015
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«Aprile è il mese più crudele, genera/ lillà da terra morta, confonde/ memoria e desiderio, risveglia/ le radici sopite con la pioggia di primavera». È l’inizio del poema epocale del Novecento, uscito nel 1922, con cui Thomas Stearns Eliot, autore di opere già memorabili, scrive l’epopea di un secolo. La terra desolata è un titolo eloquente, manifesta la rappresentazione di un mondo disanimato, letteralmente "desolato". Con questo libro che affronta un momento di buio d’anima dell’uomo occidentale Eliot entra nella storia. Moriva il 4 gennaio 1965, cinquant’anni fa, il massimo poeta del Novecento. Nato americano, volle diventare inglese, o meglio ridiventare europeo, volle essere conservatore in senso nobile, per aderire all’Europa, volle essere cristiano. Non cattolico, ma al limite: cristiano legato al mondo cattolico, lontano dal protestantesimo americano. Massimo poeta, presto scoprì che i versi non erano patrimonio esclusivo della lirica, e divenne autore teatrale. Come saggista è un pilastro della nostra cultura. I suoi scritti su Dante, Shakespeare, sulla poesia occidentale e alcuni teologi, su Dio e sulla civiltà occidentale, sono fondamenti del nostro pensiero. Dopo La terra desolata scriverà un libro dal titolo altrettanto esplicito: Gli uomini vuoti. Messaggio inequivocabile: sta parlando del Novecento, secolo della crisi, dell’ansia, di una visione desacralizzata del mondo. Nel riconoscere subito la grandezza del poeta, la critica lo definisce e celebra come un potente e originale cantore e testimone della crisi, dell’età del Nulla. Cadendo in un equivoco che si rivelerà perdurante. Eliot, giustamente considerato uno dei massimi autori moderni, sacrosantamente premiato con il Nobel, venerato come maestro dai poeti del secolo appena trascorso, è il vate che affronta l’età dell’ansia e del nulla: rappresentandola, manifestando sin dai primi versi la necessità di un risveglio, e la compresenza della vita sorgiva nella morte. Leggiamo i versi iniziali: Aprile non è mortuario, ma crudele, poiché mescola il gelo dell’inverno alla vita delle radici sopite. Custodisce la vita nella morte apparente, se è vero che poi avverrà un risveglio. Pochi versi dopo scrive: «L’inverno ci tenne al caldo, coprendo/ la terra con la neve obliante, nutrendo/ una misera vita con tuberi secchi». Sin dall’inizio la visione è cosmologica: l’inverno che addormenta in realtà non fa morire, ma custodisce, nella neve, il seme della rinascita. Quello intermedio, quello di Aprile, è un tempo di passaggio, di agonia, non di disperazione. Prima ancora di giungere a opere come i Quattro quartetti dove la visione del mondo si definisce in una complessità assoluta, in cui agonia e speranza convivono, la sua anima resiste e si oppone a un tempo di esaurimento spirituale, ma la sua mente vede, lucidamente, direi "estaticamente", "teatralmente", i principi di rigenerazione. La critica, per quanto ammirata, è rimasta condizionata dai suoi primi titoli, e dai suoi incipit, collocando il sommo poeta nella sfera del pessimismo novecentesco (riduttivi, per un poeta, Pessimismo, e Ottimismo. La poesia esige conoscenza piena, non ha bisogno di queste debolezze psicologiche). Salvo poi registrarne un cambiamento, dopo la conversione. Altro errore, perché non fu una conversione, ma un’accettazione di un cristianesimo prima addolorato e poi graziante. Un abbandono a un mistero di cui prima si vedeva solo l’aspetto inquietante. Che quindi non cambia nulla: persiste il dramma, come prima esisteva la speranza. Ingenuità di lettura. Anche Dante, all’inizio della Commedia, non parte come D’Artagnan, un giovane guascone assetato di avventure galoppanti e ventose, infatuato del caleidoscopico mondo dei Moschettieri. Dante inizia nel buio: «Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura». E, soprattutto, la diritta via era smarrita. Eppure il viaggio di Dante culmina nel Paradiso, nel fuoco dell’amore e di Dio, partendo dal buio, traversando le angosce del nulla, della dissipazione dell’anima.Permane questo sospetto di  tristezza in Eliot. Anche nei maestri del Novecento. Parlando con Mario Luzi, nella nostra ultima conversazione (aveva novant’anni, 31 gennaio, bilancio non solo dell’anno), mi disse che, con i grandi poeti del nostro tempo, Eliot condivideva una certa tristezza, o sfiducia, novecentesca. «Se adesso ci ripenso un po’ a posteriori, è perché il Novecento è stato un po’ il mio secolo, ci sono dentro, e mi accorgo che anche quei poeti che amiamo sono di un’umanità rinunciataria, afflitta e rassegnata».Ma subito riconosceva il merito fondamentale, rifondante, di Eliot, che egli Luzi avrebbe ripreso, ricreando una tradizione novecentesca a cui ho avuto il destino e la volontà di appartenere: «Eliot più di ogni altro inserisce l’epica nella lirica e non a caso approda, non in alternativa, ma in compagnia, al teatro. Ha colto in sostanza tutto quello che le altre discipline non vedevano più, e tra queste il romanzo».Eliot, come i grandi, i supremi poeti, scopre mentre inventa. Vede mentre fonda. Correlativo oggettivo: la poesia si esprime su realtà immateriali, atemporali. Ma può farlo solo attraverso immagini concrete, rappresentazioni temporali. Per attingere a verità fuori del tempo devi esprimerti nel tempo. "Sensous thought", pensiero percettibile dai sensi. Teatro: Per questo Eliot riscopre che la poesia ha tre generi, quello lirico, quello epico e quello drammatico. In origine. E li rifonde e diventa autore drammaturgo. Shakespeare era un poeta, notoriamente scriveva in versi. Dante è autore di un’opera che s’intitola Commedia. Eliot rifonda, e rifonde tutto. È il maestro della poesia moderna.
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