venerdì 6 febbraio 2015
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Ancora impresso nella memoria il lungo minuto di silenzio quel giorno, in Francia; i tg di tutto il mondo trasmettevano un’improvvisa sospensione del traffico, delle voci nei caffè, nel metrò, di ogni voce. E poi, inconsciamente, salutando l’elezione del nuovo presidente della Repubblica italiana, vedendo in televisione il suo volto, sentendo il suo nome e rievocando, attraverso i filmati e la nostra memoria, l’assassinio di suo fratello, e poi Falcone, e poi Borsellino, la mia mente tornata a tanti minuti di silenzio della sua e nostra Sicilia e della sua e nostra Italia. Ascoltando la radiocronaca del campionato di calcio, per associazione mentale, pensavo a tanti minuti di silenzio negli stadi, commemoranti campioni scomparsi o uomini rappresentativi dello sport. Continuo a preferire la radiocronaca alla visione televisiva in diretta, per quanto riguarda il campionato, perché la voce mi comunica azioni in assoluto, facendomi insomma immaginare, e questo fatto certo favorì l’improvvisa memoria dei tanti minuti di silenzio in cui la voce del telecronista e quelle della folla nello stadio, a un preciso segnale, tacevano. Quel minuto rappresenta un’interruzione simbolica del tempo, non comunica a mio parere un senso di paralisi ma di incantesimo, l’avvento del silenzio dell’origine, precedente il primo suono vitale, il rumore del primo respiro, o le esplosioni cosmiche che generarono anche la forma del nostro pianeta. «Il resto è silenzio», recita Amleto: il tumulto della vita, con il suo agone, il suo sangue, i suoi amori e le sue azioni; il resto è il muto mistero dell’origine e della fine. Quello che cercano l’asceta, l’alpinista, ma anche l’uomo comune non desensibilizzato che entra in acqua per nuotare, l’immersionista, chi esce dalla città per passeggiare in campagna: non cerchiamo la morte, in quel silenzio, ma il mistero, la sospensione del tumulto. Che non è solo dramma: la vita è bella per le sue voci, per i rumori delle città, per il clangore dei porti, per le sirene delle fabbriche, per i rumori delle metropolitane: la vita è suono e movimento. Che non avrebbe però anima se non convivesse con la percezione del silenzio. Il minuto di silenzio è un rito luttuoso: si svolge per piangere persone morte. Ma è anche un rito augurale: che dopo quel lunghissimo silenzio la vita ricominci, modificata. Che la morte appena pianta, onorata, celebrata, serva a qualcosa, che non sia stata inutile. Quella pausa vuole riportare ognuno, ogni uomo silente, al ricordo del morto ma anche alla scoperta della comunità delle nostre vite, all’interno di noi, in silenzio. Certo fu un poeta, e un uomo religioso, chi lo inventò. Non mi risulta scrivesse versi, né so nulla elle sue opinioni in materia religiosa: so che chi pensa a un tempo di silenzio per commemorare un lutto e chiede a una collettività di sospendere ogni parola, direi di trattenere anche il soffio del respiro, manifesta lo spirito originario della poesia, in senso foscoliano, la salvezza dal buio, la memoria, la continuità della vita nei viventi. E il senso religioso quintessenziale: l’appartenenza degli umani a una comunità che si interroga sull’esistenza di qualcosa sopra o oltre la morte. E intenso, drammatico, fu il momento storico in cui nacque l’idea: la fine della Prima guerra mondiale. L’8 maggio 1919 Edward George Honey, giornalista australiano che lavorava a Londra, scrisse una lettera al quotidiano English News proponendo una commemorazione adeguata del primo anniversario dell’armistizio, che poneva fine alla Grande Guerra, e che era stato firmato l’11 novembre 1918. Allora, propose, dato che si trattava dell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese, la commemorazione avrebbe potuto svolgersi alle ore 11 di quel giorno e quel mese. E proponeva le modalità del rito: «Cinque minuti soltanto. Cinque minuti di silenzio per la nazione. Una intercessione sacra. Comunione con i Morti Gloriosi che conquistarono per noi la pace, e dalla comunione, nuova forza, speranza e fede nel domani. Anche funzioni religiose, se volete, però la cerimonia non si svolga nelle chiese ma nelle strade, nelle case, nei teatri; ovunque la vita pulsi, la vita venga sospesa». Una vera cerimonia, un rito che consentiva a ogni uomo, credente o meno, di entrare in comunione con i morti per la patria, nel ricordo. Grazie a una successiva proposta re Giorgio V la rese operante, e l’11 novembre 1919 ebbe luogo. Cinque minuti parevano troppi, uno, troppo poco. Si scelse il tempo di due minuti. Lo condivisero tutti paesi del Commonwealth, a cui si aggiunsero altre nazioni tra cui Francia e Belgio. È un mio azzardo che la sua trasformazione, in certi Paesi, da due a uno, provenga da una mente pitagorica, mediterranea, essendo l’uno il numero perfetto e assoluto. Ma non ho prove. Provato è invece che il minuto di silenzio nasce come risposta dell’uomo alle tragedie di una guerra. Con il silenzio religioso, assoluto, con il ricordo votato, con la preghiera, o la speranza, di un tempo umano rigenerato e in pace.
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