giovedì 20 novembre 2014
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«La mafia ha i piedi in Sicilia ma la testa forse a Roma. La mafia diventerà più crudele e disumana, dalla Sicilia risalirà l’intera penisola per portarsi anche al di là delle Alpi». Era il 1900 e così parlava don Luigi Sturzo. Frasi praticamente sconosciute. A citarle è un altro sacerdote, don Luigi Ciotti. «Questa è la profezia di un uomo che fonderà una forza politica come servizio per il bene comune, un siciliano attento, che disturbava i poteri forti di allora. In quegli stessi anni preti impegnati, per amore dei poveri e per la loro denuncia della corruzione mafiosa venivano ammazzati: don Giorgio Gennaro, don Costantino Stella, don Stefano Caronia». Dunque, sottolinea, «c’è stata una Chiesa che ha sempre saputo essere attenta alle mafie. Magari numeri piccoli, ma c’erano sacerdoti e vescovi che condannavano questo male. Una Chiesa che ha reagito, ha parlato. Ma – denuncia – c’è stato anche chi per tiepidezza, prudenza, ignoranza, superficialità è stato dall’altra parte. Non possiamo nasconderlo, ci sono state delle risposte, dei sacrifici, del coraggio, ma anche dei grandi vuoti».Questo il fondatore del Gruppo Abele e di Libera andrà a raccontare oggi al convegno "L’immaginario devoto tra organizzazioni mafiose e lotta alla mafia", che vedrà per due giorni a Roma gli interventi di storici, sociologi, antropologi. «Un’operazione collettiva – spiega Lucia Ceci, docente di Storia contemporanea all’Università di Tor Vergata e organizzatrice dell’iniziativa –, un progetto di ricerca del quale il convegno è la prima uscita pubblica, che si prefigge si analizzare l’immaginario devoto: da un lato come viene utilizzato dalle organizzazioni criminali nei riti di affiliazioni, nelle processioni, nei funerali, nei matrimoni e nei battesimi, e dall’altro su come la Chiesa sia impegnata a creare modelli di santità e di devozione alternativi a quelli delle organizzazioni criminali». L’obiettivo è di affrontare questi temi «con metodo analitico. Da allargare poi alle esperienze di altri Paesi come il Messico, la Russia e il Giappone. Aprendo anche un focus su come ne ha parlato il cinema. Un lavoro che, se troveremo i finanziamenti, vorremmo portare non solo agli studenti universitari, ma anche nelle scuole».Un progetto articolato, dunque, e don Ciotti racconterà della “Chiesa dell’antimafia” che, come abbiamo visto parte da molto lontano. Ancor prima di don Sturzo. «Nel 1877 – cita ancora – il giornale La Sicilia cattolica, organo della curia vescovile di Palermo, denunciava la collusione tra la buona società e il crimine organizzato: “Che vale essere avvocato, sindaco, proprietario e perfino deputato se delle loro proprietà e titoli se ne servono a proteggere il malandrinaggio. Per giungere ad alcunché di positivo bisogna non transigere con la mafia”. Attenzione – avverte don Luigi – noi ne parliamo oggi ma qualcuno se ne era già accorto allora». Per questo, aggiunge collegandosi alla finalità del progetto, «la storia è importante. Come Chiesa abbiamo un patrimonio molto importante, una storia fatta di storie. Certo con fasi alterne. E io sono andato a scoprire proprio queste oscillazioni della Chiesa in alcuni momenti attenta, in altri distratta». Nel suo scavare la storia don Luigi trova una scomunica datata 1° dicembre 1944. La lanciano i vescovi siciliani in una "lettera collettiva" di condanna dei «gravi mali morali». Dove si legge: «Si è inflitta la seguente censura: incorrono ipso facto nella scomunica riservata all’ordinario tutti coloro che si fanno rei sia di rapina sia di furto congiunto con atti di violenza sia di omicidio ingiusto e volontario». «Il testo – commenta don Ciotti – ufficialmente non menziona il termine mafia, ma dal contesto si capisce che si riferisce a fatti e circostanza che riguardano la mafia. Dunque i vescovi siciliani c’erano già da allora su questi temi e questo mi fa un po’ arrabbiare...». Perché poi bisogna arrivare al 1963 quando l’allora segretario della Segreteria di Stato, Giovan Battista Montini, scrive al cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini «per chiedergli di intervenire dopo la strage di sette uomini delle forze dell’ordine. E lo invitava “a commisurare i progetti pastorali con l’emergenza mafiosa”. Aveva proprio ragione perché le mafie non sono un mondo a parte, ma sono parte del nostro mondo. E quindi siamo chiamati a leggere la storia, a immergerci nella storia».Una storia che arriva poi, nell’analisi di don Ciotti, alla famosa invettiva di Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993 ad Agrigento. La mafia risponde con le bombe alle chiese di Roma il 28 luglio, e uccide don Puglisi il 15 settembre. La motivazione arriva il 19 agosto quando Marino Mannoia, protetto dall’Fbi in Usa, dice: «Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile. Ora invece cosa nostra sta attaccando anche la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: “Non interferite”». Quindi se prima era sacra e intoccabile vuol dire che in troppi non avevano contrastato la mafia. «Un altro mafioso, Leonardo Messina, spiegò: “La Chiesa ha capito prima dello Stato che doveva prendere le distanze da cosa nostra”». Come fece il cardinale Salvatore Pappalardo al funerale del parroco di Brancaccio: «Occorre lavare nel sangue di padre Puglisi la propria coscienza. Non si può combattere e sradicare la mafia se non è il popolo tutto che reagisce alla sua presenza e prepotenza. E la comunità civile e ancor più la comunità cristiana che deve reagire coralmente non solo con significative manifestazioni, ma assumendo atteggiamenti di pubblica e aperta ripulsa, di isolamento, di denuncia, e di liberazione nei riguardi di ogni forma di mafia a tutti i livelli». E don Ciotti riflette: «Questo è il Vangelo che raccomanda la parresia che è il contrario dell’ipocrisia. E allora è necessaria una svolta ulteriore nella Chiesa che non può essere affidata solo a qualche vescovo, a qualche sacerdote e alle parole di un Papa».
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