mercoledì 2 ottobre 2013
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«Certo che erano documenti falsi. Permessi di soggiorno, per l’esattezza. E si sapeva che li produceva Giovanni Palatucci. Ma non lo scriva, la prego, spenga quel registratore…». Il racconto di Guelfo Picozzi, classe 1924, agente della polizia in pensione, colpisce per due ragioni. Perché – nel pieno di una campagna che getta ombre sulla figura di Palatucci – è l’ennesima testimonianza a conferma dell’opera portata avanti dal questore reggente di Fiume morto a Dachau: Picozzi racconta di due salvataggi notturni cui partecipò, nell’estate 1943, con una cinquantina di persone ciascuno. Ma l’altra cosa che colpisce è l’imbarazzo ancor oggi di questo ottantanovenne a parlare di un’azione che fu in contrasto con la legge, fosse pure quella crudele dell’epoca. A smentita di chi sostiene che le tante testimonianze di collaboratori di Palatucci siano scaturite negli anni con l’intento di acquisire onorificenze. Antonio Maione, il braccio destro; Alberino Palumbo, il giovane attendente arruolato dopo l’armistizio con tanti agenti sbandati nella ex Jugoslavia; Americo Cucciniello, l’inviato speciale delle missioni più difficili; Ernesto Iacovella, il responsabile della mensa della questura dove gli ebrei venivano anche sfamati; Giuseppe Veneroso, il finanziere che li faceva passare alla frontiera; il brigadiere del commissariato del porto Pietro Capuozzo, padre del giornalista Toni; Feliciano Ricciardelli, il commissario-amico della questura di Trieste, che poi finì pure lui a Dachau ma si salvò; Albertino Remolino, il "postino" che recapitava le lettere allo zio Giuseppe Maria Palatucci, vescovo di Campagna, dove c’era un campo di internamento la cui opera di assistenza fu sostenuta economicamente dalla Santa Sede. L’elenco potrebbe non finire mai. Non c’è eroe della Resistenza, forse, che possa contare su tanti testimoni. Tutti scomparsi, ora, e tutti messi in discussione (solo ora) dalla ricerca del «Primo Levi Center» di New York: mancherebbero infatti i documenti e quelli che ci sono attesterebbero che Palatucci collaborò coi tedeschi.Ma si poteva restare alla guida della questura di Fiume – vien da chiedersi – con l’Istria e la Dalmazia occupata dai nazisti dopo l’armistizio, senza stabilire rapporti con loro? E come poteva proseguire quest’opera per tanti anni se avesse lasciato negli archivi tracce che ora si cercano affannosamente? Nel frattempo, non un testimone è stato trovato a suffragare le tesi dei detrattori, mentre per Palatucci ne spunta ancora un altro. Guelfo Picozzi oggi vive (felice coincidenza) a Città di Castello, città eroica nell’aiuto agli ebrei cui deve la salvezza – un nome per tutti – il rabbino emerito della comunità di Roma  Elio Toaff, fra i protagonisti della riscoperta di Palatucci ad opera della comunità ebraica, presa in carico solo dopo dalla Polizia di Stato e per ultima dalla Chiesa che aprì il processo di canonizzazione. Picozzi arrivò a Fiume dopo la scuola di polizia a Caserta. Era il maggio 1943, il declino del regime e le sorti negative della guerra erano già evidenti: «Trovai un esercito allo sbando, avrei dovuto prendere servizio al Comando della II Armata ma scelsi di fare capo a un ex ospedale sede della milizia confinaria, dove potevo godere di maggiore libertà di movimento». L’ideale per essere "arruolato" da Palatucci: libero di agire sul territorio, in zona di confine, dove ancora in tanti, ebrei ma non solo, arrivavano in fuga dai Paesi balcanici nei quali l’escalationdella caccia agli ebrei dei nazisti e del regime alleato degli ustascia era ormai all’epilogo della soluzione finale. «A dirigere l’attività e a smistare i permessi erano una crocerossina molto legata a Palatucci e il maresciallo Maione, suo braccio destro.Lui si esponeva poco, ma sapevamo che era il terminale di tutto. Con Palatucci ci si vedeva spesso per il caffè al bar Pancera, dove lui mangiava. Queste persone disperate che vedevamo arrivare le mandavamo in questura o anche lì, al bar, dove potevano incontrare Palatucci più riservatamente. Si vede che giungevano già con l’idea che avrebbero trovato qualcuno che potesse aiutarli». Era il cosiddetto "canale fiumano", che esclude si possa restringere oggi l’indagine sui salvati da Palatucci ai soli ebrei residenti a Fiume, errore colossale su cui l’indagine di New York ora mostra di voler correggere il tiro. «In tanti – afferma Picozzi – forse neanche avranno saputo mai chi fosse stato a fornire loro quei documenti». E questo forse spiega perché oggi si possa attingere più alle testimonianze di collaboratori e agenti che a quelle dei salvati: «Maione, ma anche Palatucci, tutte le volte che ci salutavamo, raccomandavano prudenza, ("Silenzio!"). Meno si sapeva e meglio era». Una prudenza dovuta al carattere clandestino di quell’opera, testimoniata anche dall’ora in cui ci si dava appuntamento: «Ci si trovava in porticcioli sperduti alle tre di notte. Si diceva che ci fosse un amico di Palatucci proprietario di un peschereccio, non ho mai capito. Io ho partecipato a due operazioni di questo tipo, ed era alla vigilia che la raccomandazione alla prudenza di Palatucci era più insistente. Lui non veniva, facevano tutto due crocerossine, in collegamento col maresciallo Maione. C’erano anche profittatori, ricordo; ognuno poteva imbarcare non più di 50 chili di bagaglio, e dovevano lasciare tanta roba a riva». Due imbarchi di 50 persone, quindi, in soli 5 mesi di permanenza a Fiume, nel racconto di Picozzi; ma tante testimonianze confermano che l’opera andava avanti da anni e sarebbe proseguita, più alla spicciolata e con rischi ben maggiori, anche dopo l’armistizio, quando in Istria e nel Carnaro arrivarono i tedeschi. «Io scappai prima, e mi colpì che Palatucci pur avendone avuto la possibilità rimase a Fiume».
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