lunedì 2 marzo 2015
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La grande peste del 1348, dalla quale trarrà cornice il Decameron, è certo il più funesto evento che subisca, spopolandola, l’Europa intera alla metà del XIV secolo; ma è altresì "luogo narrabile" perché da decenni (e non solo nelle invettive di Dante e del Petrarca) la Chiesa stessa erasi fatta "lebbra" dell’umanità, come ricorderà santa Caterina da Siena: «Perch’io voglio fare misericordia al mondo, e con esse orazioni e sudori e lagrime lavare la faccia della Sposa mia, cioè della santa Chiesa, perché già te la mostrai in forma d’una donzella lordata tutta la faccia sua, quasi come lebbrosa. Questo era per lo difetto de’ ministri, e di tutta la religione cristiana, che al petto di questa sposa si notricano». ("Dialogo", cap. LXXXVI ). Epopea di tutto l’umano, il Decameron di Giovanni Boccaccio (Certaldo, 1313-1375) è forse il primo grande testo umanistico: non tanto e solo perché laicizzi l’esperienza, condisca di beffe e burle «l’usare insieme», liberi con il «motteggiare» l’amore dagli interdetti, trafigga la «ipocresia de’ religiosi» (I, 6); bensì perché ricapitola sotto il segno della "dignitas" e della "infirmitas hominis" la condizione del vivere umano. Nessun altro testo era iniziato così: «Umana cosa è aver compassione degli afflitti» ("Proemio", incipit), nessun altro testo finirà con l’elogio della stoica sopportazione, dell’invincibile padronanza di sé: la novella di Griselda. Rispetto all’arte del narrare, il Decameron conferisce, per la prima volta, autonomia di fini alla scrittura: essa, dirà Roland Barthes, «s’intrattiene» e intrattiene, persuade a «far dimora» e insieme «trasporta»: tutta la VI Giornata, e in particolare la novella introduttiva di madonna Oretta, vero specchio di tutto il libro, insegna a come «far cammino» novellando. Essa è avvio e scioglimento (VI, 7 e 9), medicina dell’ira (VI, 4), reliquia e miracolo (VI, 10): compie il favoloso itinerario che comporranno le "Mille e una notte", laica "Legenda aurea" di una tradizione millenaria; e fornisce larghi rivoli al novellare italiano, dal "Paradiso" degli Alberti al "Decameron" di Pasolini. Si è detto che il Decameron è il primo testo a non porre al centro del narrare che la vicenda terrena dell’uomo e della sua carne, libera dai terrori dell’aldilà. L’affermazione contrasta proprio con l’inizio, studiatissimo, dell’opera tutta: le prime tre novelle, infatti, sono parabole "de fide", tra le più acute che abbia prodotto una società conscia della profonda crisi della Chiesa e tuttavia, come nell’alta lezione del Boccaccio, non disposta ancora a rinunciare alla Grazia. «Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate e muorsi; e, essendo stato un pessimo uomo in vita è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto» (I, 1): è la credenza che fa la santità (e non la santità che garantisca il credere); «Abraam giudeo, da Giannotto di Civignì stimolato, va in corte di Roma; e veduta la malvagità de’ chierici, torna a Parigi e fassi cristiano» (I, 2): non è l’opera, inferma e malvagia, degli uomini che fa la Chiesa, bensì lo Spirito santo; «Melchisedech giudeo con una novella di tre anella cessa un gran pericolo dal Saladino apparecchiatogli» (I, 3): il tranello del primato, «quale delle tre leggi tu reputi la verace, o la giudaica o la saracina o la cristiana», è rovesciato dal saggio: l’autenticità del lascito è nel potere del testante e non nell’erede. Tre novelle e tre sentenze: del credere, dello Spirito Santo, dell’unità nel Padre delle religioni di Abramo, con le quali, assunto tutto intero il lascito della già avanzata secolarizzazione del secolo XIV, il Boccaccio attesta tuttavia l’essenziale: che non per mano d’uomo, ma nella divina misericordia è salvezza. Innerva l’opera, non meno, la coscienza virile della civiltà cortese, che tanto più risalta quanto più è a contrasto con il crudo realismo di novelle come quella del «cuor mangiato» (IV, 9) o del cuore divelto e offerto in coppa d’oro (IV, 1), o dei poveri resti della testa dell’amato, pianti in un vaso di basilico, anche questo sottratto crudelmente alla povera Ellisabetta (IV, 5). Soprattutto nell’ultima giornata, gli esempi di "magnanimitas" e di saggezza irradiano la luce degli «spiriti magni»: la cortesia di Nathan, che si offre vittima all’invidioso Mitridanes (X, 3), sino al «re Carlo vecchio, vittorioso, d’una giovinetta innamoratosi, vergognandosi del suo folle pensiero, lei e una sua sorella onorevolmente marita» (X, 6). Al centro, soprattutto, la novella di monna Giovanna e di Federigo degli Alberighi (V, 9), esemplare per l’urbanità che la governa, la silenziosa malinconia che la pervade, la tanta fedeltà che riesce inane, il vano oggetto del desiderio, il falcone, di cui non rimane che misero lacerto: tutto è apologo di civiltà, di dolcezza, di ritegno. E mirabile il silenzio del pazientare e perdonare, come narra la novella di Griselda che sigilla il Decameron e che Petrarca tradusse in latino affinché avesse circolazione europea: perché «anche nelle povere case piovono dal cielo de’ divini spiriti, come nelle reali di quegli che sarien più degni di guardar porci che d’avere sopra uomini signoria» (X, 10). Il Decameron ha il suo "arioso" nelle avventure di Calandrino, sempre pronto a credere e a essere beffato (VIII, 3 e 6; IX, 3 e 5), carico di pietre e di elitropia, di battiture e mancate gravidanze… Il Boccaccio delinea, nel suo personaggio, l’epopea del paradosso, quella del quotidiano, di cenci e di polvere, che, in fondo, egli assume come accento più proprio, come riconosce nella Introduzione alla IV Giornata del Decameron: «Per ciò che io non veggo che di me altro possa avvenire che quello che della minuta polvere avviene, la quale, spirante turbo, o egli di terra non la muove, o se la muove la porta in alto e spesse volte sopra le teste degli uomini, sopra le corone dei re e degli imperadori, e talvolta sopra gli alti palagi e sopra le eccelse torri la lascia; dalle quali se ella cade, più giù andar non può che il luogo onde levata fu». In quella levità che piroetta sopra il tempo e i poteri, perché il suo narrare è la forza della libertà creatrice.
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