martedì 30 luglio 2013
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Ho l’impressione che talora gli occidentali continuino a proiettare sui cristiani d’Oriente un ideale atemporale. Ciò è comprensibile, ma al contempo, si rischia così di non cogliere pienamente le poste in gioco odierne». A parlare è lo storico francese Bernard Heyberger, che ha appena pubblicato Oltralpe il volumetto sintetico I cristiani del Vicino Oriente. Dalla compassione alla comprensione (Payot). Heyberger insegna a Parigi all’Ecole des hautes études en sciences sociales (Ehess), dove dirige l’Istituto di studi dell’Islam e delle società del mondo musulmano.  Professor Heyberger, quali piste suggerisce per cogliere meglio la realtà odierna dei cristiani d’Oriente?«È importante rendersi conto, innanzitutto, che si tratta di comunità pienamente coinvolte nelle trasformazioni politiche e internazionali di oggi. Anche per questo, i cristiani d’Oriente sono spesso fortemente globali. Ad esempio, la prima città maronita del mondo probabilmente non è Beirut, ma Sydney. Ciò spesso prende in contropiede il nostro ideale di un cristianesimo immutabile e incontaminato delle origini, nel solco di una tradizione locale millenaria».  All’inizio del saggio, lei sottolinea che ogni stima numerica è difficile. «Il numero totale dei cristiani, in ogni Stato, ha sempre una forte valenza politica. Si pensi al caso dell’Iraq, ancora in piena trasformazione, o a quello del Libano, dove le cifre più o meno attendibili di ogni comunità hanno permesso la costruzione di un’architettura istituzionale pluralista. Anche in Egitto, le cifre oscillano secondo le fonti, dato che la posta in gioco è pure simbolica. I governi organizzano raramente dei censimenti confessionali. In Egitto, si è smesso ufficialmente per seguire le indicazioni dell’Onu. In genere, dunque, non esistono stime statali. Personalmente, utilizzo una serie di fonti esterne, confrontando certi dati locali con altri prodotti ad esempio negli Stati Uniti». Al di là del numero complessivo, esiste la coscienza di un’unità dei cristiani nella diversità?«I copti rappresentano probabilmente un caso a parte, in quanto concentrati in Egitto ed anche per questo abbastanza diversi dagli altri. Paesi come la Siria o il Libano presentano invece una molteplicità di comunità cristiane. Qui, i confini fra le comunità sono meno chiari e in generale gli scambi più frequenti. Nel libro, cito l’esempio di un cristiano di Aleppo di origine siriaca e poi divenuto cattolico, ma fedele a un pellegrinaggio annuale ortodosso».Gli sconvolgimenti in corso tendono a rafforzare i ponti?«È ragionevole pensarlo. Nella regione, i periodi segnati da tensioni e conflitti hanno tradizionalmente rafforzato la solidarietà fra i cristiani. Storicamente, al momento delle invasioni mongole, si può citare l’aiuto reciproco fra i nestoriani e i siriaci monofisiti, due comunità tradizionalmente rivali. Più di recente, qualcosa di analogo si è osservato nel corso della guerra civile in Libano, durante la quale i cristiani sono confluiti nello stesso campo».Le violenze anticristiane degli ultimi anni rappresentano parzialmente una novità o seguono invece un solco più antico?«Storicamente, la regione ha conosciuto discriminazioni verso i cristiani e gli ebrei, nel quadro di società che già alla base erano fondate sul principio di discriminazione. Al di là del dato etnico e religioso, le categorie e i gruppi sociali si differenziavano fra loro, nel quadro di gerarchie molto complesse. Si trattava di società di ancien régime, per così dire. Resta diffusa l’opinione che l’islam sia stato discriminatorio fin dalle origini e che quanto si osserva oggi rispecchi una continuità. Una simile visione tende a considerare la religione e la civiltà islamica come monoliti immutabili. Personalmente, sono fra coloro che pensano che l’islam si sia al contrario adattato secondo i Paesi e i contesti locali. In secondo luogo, il fattore religioso non è sempre quello essenziale per spiegare le discriminazioni. Dei fattori politici e sociali hanno spesso giocato molto più nel quadro di queste persecuzioni. Oggi, ad esempio in Siria, delle aggressioni orribili vengono compiute contro i cristiani, ma sullo sfondo di una violenza generalizzata che non colpisce necessariamente i cristiani in modo prioritario».Lo spettro di una scomparsa dei cristiani nel mondo arabo-musulmano viene evocato regolarmente. Che ne pensa?«Per effetto di un esodo talora continuo, esistono comunità locali indigene che si assottigliano di giorno in giorno. Ma a livello più generale, certi Paesi conoscono pure l’arrivo anche massiccio d’immigrati cristiani. In Arabia Saudita, ad esempio, i cristiani hanno raggiunto il milione ed è stata creata di recente una sede episcopale cattolica in Kuwait. Anche ad Istanbul, i cristiani crescono in modo incessante. Il Maghreb, in epoca contemporanea, non ha mai accolto così tanti cristiani. Si tratta perlopiù d’immigrati subsahariani. Al di là della serie di drammi anticristiani, la questione della presenza cristiana si pone dunque talora concretamente, nell’area arabo-musulmana, in termini persino contrari rispetto alle visioni più pessimistiche. Il futuro dei cristiani d’Oriente è molto più imprevedibile di quanto si creda».<+copyright>
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