sabato 15 novembre 2014
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In questa fase culturale, la forzatura narcisistica dell’ordine degli affetti incomincia effettivamente a presentare il conto. Le contraddizioni più vistose, che mettono a rischio congiuntamente l’umano e il suo habitat, mi sembrano due. La prima – che è ormai largamente riconosciuta, ma anche tenacemente rimossa – sta nel fatto che l’economia globale si è impadronita di questa ossessione dell’autoaffezione, e cerca di eccitarla e sostenerla in tutti i modi. Essa presenta la sua signoria come cura, incoraggiando la visione del mondo come repertorio – reale e virtuale – di mezzi per l’ottimizzazione del godimento individuale. Dissimula il dispotismo della sua signoria attraverso un atteggiamento di premuroso sostegno al narcisismo. La libertà di scelta, nell’ambito delle opportunità politicamente corrette, appare amplissima.Nel frattempo veniamo quotidianamente istruiti, da una scienza altrettanto servizievole, sul fatto che le nostre condizioni di scelta sono essenzialmente legate alla signoria di funzioni biochimiche che agiscono in larga autonomia, e con largo anticipo, sulle disposizioni della nostra coscienza e delle nostre affezioni. Oltre a ciò, è sempre più palesemente insinuata l’opportunità di lasciare a quelle funzioni il governo della nave: opportunamente stimolate e assecondate, offrono maggiore certezza dei risultati. In quanto naturali, sono etiche per definizione. (Un altro curioso paradosso: le leggi naturali, come biochimica del comportamento, sono etiche; la legge naturale, come figura dell’umano condiviso, è ideologica).Insomma, il dominio del denaro si presenta ora come servizievole nei confronti dell’universale cura di sé, nel momento stesso in cui è in grado di produrre strumenti di controllo biochimico della sfera più intima dell’umano, come anche dell’assetto dei cicli naturali della vita. La società dei servizi virtualmente a disposizione del singolo è diventata un’ottima copertura per i dispositivi di reale assoggettamento destinati ad essere interiorizzati individualmente.La seconda contraddizione, al momento non così evidente, sta nel fatto che l’ossessione della cura di sé (l’autoaffezione come principio primo dell’ordine degli affetti) è un potentissimo fattore di depressione della fede nel mondo e della speranza della vita. In un primo momento essa distrae le affezioni dall’umano condiviso, che nutre tutti e non è proprietà di nessuno, sottraendole alla passione per la signoria e la cura per il suo habitat spirituale e materiale. Ne risentono a cascata, la famiglia, la città, la società, la nazione, le alleanze dei popoli.Le forze creative e le forme estetiche vengono dirottate sulla cura individuale di sé, che si attende dalle istituzioni dell’umano l’assegnazione del diritto di goderlo e di consumarlo a questo scopo e con questa destinazione. Il circolo vizioso è inevitabile. L’individuo stressa e consuma l’umano che è comune, senza alcun limite; l’umano che è comune perde forze, nutrimento, attrattiva. Sulla soglia critica di questo scarto, che diventa insostenibile, la depressione viene scaricata sul singolo. Gli viene imposto di provvedere da sé stesso,  liberamente e creativamente, alla realizzazione migliore di sé: però il singolo, separato dall’umano condiviso, dalla forza dei suoi legami e dalle forme della sua generatività, scopre di non avere neppure ragioni per stremarsi nel faticoso e incerto progetto di realizzare sé stesso. Poiché questa ingiunzione all’autorealizzazione non fissa alcun limite, nessun approdo sarà mai considerato accettabile: forse, il meglio deve ancora venire. La tenaglia è pronta: ormai l’insuccesso dei perdenti è censurabile e colpevole (hai allentato la cura di te, non hai colto le opportunità). Ma al tempo stesso, può essere considerato come l’effetto ingovernabile di condizionamenti genetici e ambientali (ti solleva dalla colpa, ma la depressione aumenta). La malattia invalidante, la vecchiaia vulnerabile, la povertà materiale, ritornano a essere il segno di una tara imbarazzante o di una colpa oscura, proprio come ai tempi di Gesù: anche se adesso la superstizione è laica, non più religiosa. Lo dico francamente: non riesco a vedere alternative a questa involuzione, se non nella diffusione di uno sguardo radicalmente critico – e non privo di sana sprezzatura – nei confronti di questo monoteismo del sé, che sta dirottando e deformando l’ordine degli affetti. È necessario togliergli l’acqua, usando con molta parsimonia e scetticismo le figure della ricerca di sé, dell’interiorizzazione riflessiva, dell’interrogazione socratica, dell’ottimizzazione dei potenziali e delle risorse. Bisogna ridiventare più creativi e audaci: il desiderio si corrompe quando è ripiegato sul sé; diventa intelligente, vitale, felice, quando genera qualcosa che commuove gli altri, che arricchisce l’umano per la felicità di tutti. Un bambino, una poesia, una sinfonia, una chiesa, un ponte di liane, qualunque cosa. Ma anche quartieri che non sembrino un set di parallelepipedi per insegnare la geometria o fare i test di intelligenza. E scuole non così miserabili come sono. Oppure una sapiente regia urbana del verde, degli spazi vuoti, degli arredi invitanti. Tutto insomma pur di rendere bello il mondo e non pensare al sé. E proprio allora il sé scoprirà di esserci, e di essere pure felice. Dell’egemonia delle potenze legate al denaro non discuto, perché il comandamento del Signore è chiaro: con Cesare, a certe condizioni, si può trattare; con Mammona, mai. L’idea che l’autoaffezione sia il fondamento e il criterio di ogni altra affezione è falsa. Non siamo venuti al mondo così, non siamo entrati nell’umano così, non abitiamo l’umano in questo modo. E quando cerchiamo di farlo, forzando la giustizia dell’ordine degli affetti, il delirio di onnipotenza divide la città degli uomini e corrompe l’habitat dei viventi. È così fin dall’inizio.Il cristianesimo si trova oggi nella favorevole condizione di restituire bellezza e forza alla teologia della creazione, interpretandola, finalmente, come figura di rivelazione: il fondamento di ogni creatività è il gesto della pro-affezione, che genera vita e se ne prende cura. Con la rivelazione cristologica, infine, abbiamo scoperto che Dio, nella sua stessa intimità, non è  autoreferenzialità, bensì generazione.È di questa pro-affezione generativa che vive eternamente, non di autoaffezione ripiegata su di sé. E questo è anche il segreto rivelato di ogni personale appropriazione della vita per la creatura-uomo, alla quale l’atto creatore è affidato perché si moltiplichi e fiorisca. È su questa decisione radicale, a riguardo della giustizia dell’ordine degli affetti, che saremo giudicati dalle generazioni a venire. È in ragione di questa fede che saremo riconosciuti dal Signore, nel discernimento dell’ultimo giorno, quando gli Angeli riceveranno l’autorizzazione a separare il buon grano dall’erba cattiva, i pesci buoni da quelli corrotti (cfr. Mt 13,47-50). L’impresa della custodia creativa e non dispotica del corpo-mondo è un’impresa necessariamente comune all’umano, a fronte dei gemiti inespressi o dimenticati dell’intero universo. Il compito specifico dell’intelligenza e della testimonianza cristiana rimane il discernimento dell’atto creatore del regno di Dio nelle pieghe della storia delle umane affezioni.Il mondo si fa habitat degno della qualità spirituale-sensibile della vita attraverso l’intreccio, esaltante e pericoloso, delle potenze naturali e delle umane affezioni. Il senso della scoperta e dell’invenzione deve svilupparsi in sapiente dialettica con l’umiltà e la compassione per la vulnerabilità della vita. Riparare gli errori e curare le ferite non è meno cruciale che allargare i confini e creare bellezza. Lo splendido enigma di agape – chi ama il suo prossimo salva sé stesso, chi spende la sua vita la guadagna – presidia la soglia di questa congiunzione, sempre mancata, di una civiltà dell’amore. È pieno di creature, lì. E lì sta il discepolo.
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