giovedì 17 luglio 2014
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​Durante i quattro mesi in cui soggiornò a Parigi, fra l’ottobre 1885 e il febbraio 1886, grazie a una borsa di studio che gli consentì di seguire le lezioni alla Salpêtrière del neurologo Jean-Martin Charcot, il precursore degli studi sull’isteria, pare che il giovane Sigmund Freud avesse scelto come spazio di meditazione la grande balaustra che attraversa la facciata ovest di Notre-Dame. Era uno dei luoghi parigini prediletti dal futuro padre della psicoanalisi, dove si recava molto spesso. Ci si può chiedere quale fosse la ragione che spingeva Freud verso quel luogo, forse la risposta sta nelle celebri chimere che decorano la balaustra sopra la Galleria dei re. Sono 54 e rappresentano animali più o meno fantastici: uccelli incappucciati, draghi volanti e barbuti, demoni pensosi come la cosiddetta «Strige» altresì nota come «Vampiro», mostri divoratori, gatti-pantere, cani rabbiosi, demoni unicornini, arpie, cormorani, leopardi e piccoli elefanti, pellicani e basilischi, orsi e ibridi di felini... c’è anche uno strano personaggio, l’unico ad avere parvenza umana, l’alchimista, detto anche l’«ebreo errante». Sono mostri che hanno tutte le qualità implicite delle «teratologie» medievali, simili, o in qualche modo derivati da disegni che si vedono spesso sui bordi dei libri miniati, che in quanto tali sono chiamati marginalia. Quando ci si trova a Notre-Dame, davanti alla facciata ovest, prima dal basso e poi salendo fino alla grande balaustra, si osservano quelle strane figure e le si considera un frutto eccentrico del Medioevo, ovvero una decorazione cresciuta assieme alla cattedrale, la cui facciata, comprese le due grandi torri, fu elevata nel XIII secolo a ritmi brevissimi, a cominciare dal 1235, in poco più di vent’anni.La presunta armonia fra edificio e chimere, in realtà, è quasi un artificio. Si tratta di un’alchimia del tempo atmosferico, che levigando e sgretolando le materie più dure uniforma cose distanti tra loro anche di secoli, amalgamandole dentro un’unica apparenza d’antichità. Solo un occhio allenato può sentire lo spessore diverso e la profondità d’invecchiamento delle cose. Quelle chimere, infatti, non sono dell’epoca medioevale, ma il frutto della mente di un grande architetto e teorico del neogotico, Eugène Viollet-Le-Duc, che a partire dal 1843 le fece realizzare mentre in contemporanea eseguiva il restauro di Notre-Dame, un restauro che aveva la meglio sul lungo e contrastato dibattito attorno alla necessità o meno di intervenire sull’edificio. Viollet-Le-Duc impiegò circa vent’anni per terminare l’opera di restauro, intervenendo anche su molti materiali scultorei, e i lavori idealmente si conclusero con la collocazione dell’ultima chimera sulla facciata, esattamente un secolo e mezzo fa, nel 1864. Sulla cattedrale metropolitana, come era chiamata all’epoca, avevano agito il tempo con la sua sottile forza di erosione, ma nondimeno le distruzioni e gli smantellamenti di opere scultoree seguiti alla Rivoluzione Francese, i cui artefici nel 1793 avevano imposto la rimozione di tutte le statue della Galleria dei re dalla facciata e di molte di quelle figure dell’immaginario “mostruoso” medievale che cadono sotto il nome di gargoyle (o gargouilles): le prime, perché, naturalmente, rappresentavano il potere odiato e destituito dai sans-culottes, le seconde, invece, in quanto prove del famigerato irrazionalismo medioevale. Era così depauperata, Notre-Dame, che qualche anno prima dell’inizio dei restauri, qualcuno la vedeva ormai come una immensa rovina.È bene non dimenticare che Viollet-Le-Duc, formatosi alla cultura del Medioevo, era tutt’altro che un irrazionalista, credeva fermamente nella razionalità applicata all’architettura (il Medioevo, e il gotico in particolare, erano una scuola di altissima ingegneria e di gusto che conciliava funzionalità e bellezza, rigore e leggerezza). Non era neppure un simpatizzante monarchico, anzi per certi aspetti era un “democratico” e in quelle chimere si potrebbe persino ritrovare un ironico e sottocutaneo inno alla maestria dell’operaio e all’idea, ancora medievale, della costruzione, tanto più se di una chiesa, come opera corale. Michail Bachtin aveva messo in luce molti decenni fa l’importanza dell’immaginario popolare, e delle sue drôlerie, come critica al potere svolta “dal basso”, per così dire. Come ha scritto Michael Camille in un corposo saggio sui gargouilles di Notre Dame, il fatto che Viollet-Le-Duc abbia «delocalizzato» quei mostri, portandoli dai margini dell’edificio al centro della facciata, e che diversi li abbia realizzati proprio nel 1848, l’anno delle rivoluzioni in Europa, potrebbe essere la prova del rigurgito d’idealismo che la rivolta suscitò in lui, il quale vi aderì come fanno talvolta gli artisti: dissimulando nel tema figurativo un’allusione politica.Dobbiamo tener conto di una distinzione che lo stesso Viollet-Le-Duc aveva ben chiara: quella fra chimere e gargouilles. Il nome di questi ultimi viene spesso tout court assimilato a “mostro” o “demone”, in realtà il termine rimanda etimologicamente ai condotti idraulici, gronde e pluviali, e il suono della parola sembra alludere al gorgoglio delle acque – glugluglu – che scendono dai tetti fino agli scoli. Inutile negare che le figure che si slanciano anche di un metro dai cornicioni delle chiese e hanno l’aspetto di animali fantastici, mostri e demoni, invitano a pensare in termini simbolici: la vittoria sul male e le sue tentazioni, in un certo senso «mostri del bene», ovvero guardiani che presidiano il luogo sacro e ne tutelano l’inviolabilità, difendono i fedeli dalle insidie del maligno. Viollet-Le-Duc – che non era certo una beghina e non perseguiva una salvaguardia di queste testimonianze artistiche in quanto «Bibbia di pietra» (alla maniera di Hugo o di Ruskin) –, difende i “mostri” da chi vorrebbe rimuoverli o da chi è ostile alla loro ricollocazione, sostenendo nella voce “Gargouille” del Dictionnaire raisonné de l’architecture, che queste forme misteriose ebbero la loro prima apparizione nel Medioevo proprio a Parigi, a partire dal 1225, e cita due casi dell’epoca, rivendicandone la funzione pratica, ancor prima che simbolica: dove gli scoli delle acque si servono dei gargouilles, anche l’edificio resiste meglio alle offese del tempo. Così – come ha scritto ancora Camille – se i gargouilles «simboleggiano il controllo spirituale e la sottomissione delle forze demoniache, nel sistema di Viollet-Le-Duc rappresentano la preservazione dell’edificio dal degrado».
Se i gargouilles hanno anche una funzione pratica, le 54 chimere disposte sulla facciata di Notre-Dame non ne hanno nessuna, se non di carattere estetico. E con ciò non si attribuisca alla funzione ornamentale un senso banale, perché nello spirito dell’architetto francese struttura e ornamento collaborano a una stessa e unitaria idea di opera (anche questa è una lezione del Gotico). Questi singolari marginalia di pietra, dunque, hanno lo scopo di rendere manifesto a tutti l’attualità e la forza estetica del Gotico per un’architettura che cerca, mutuandone l’idea “organica”, di tracciare un ponte a una sola, immensa campata, fra Medioevo e Moderno, che nell’immagine del cantiere trova il centro prospettico. Rischiando, però, anche il falso storico.Sono, quelle chimere, un sogno del Medioevo che fa parlare le ombre, le silhouettes inquietanti, ma cariche di ironia, che diventano anche una critica indiretta alla celebre immagine di Goya dove il sonno della ragione partorisce mostri: eccoli qua, replica Viollet-Le-Duc, i mostri di Notre-Dame sono come l’ebreo errante, non possono morire e vivono esiliati a venti metri da terra senza poter intervenire sui destini umani. Mostri ormai inattivi, immagini che custodiscono un tempo andato, ma non del tutto perduto, sono i veri testimoni di quel Medioevo immaginato (più che fantastico, come in certe saghe cinematografiche di oggi), di Viollet-Le-Duc. L’architetto francese distilla atmosfere, stilemi, forme di una lingua apparentemente morta con la stessa visionarietà con cui il flâneur di Benjamin insegue tra i passages le tracce del moderno che passa.Resta solo lo spazio per notare che mentre Viollet-Le-Duc immaginava questa architettura perduta come antidoto al prosaico razionalismo della incombente società industriale, dì lì a pochi anni il prefetto della Senna infliggeva un radicale boulversament a Parigi, demolendo i quartieri medioevali fatiscenti per sostituirli con la grande ruota dei boulevards, funzionali al transito dei mezzi meccanici, in primis quelli militari. Finiva un’epoca, e quella di Viollet-Le-Duc forse non era mai cominciata. Rimase, appunto, un sogno di pietra.
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