lunedì 20 aprile 2015
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«Dacci oggi il nostro pane quotidiano» è un’esortazione che, pur trovandosi all’interno della principale preghiera cristiana, chiama in causa ciascun abitante del nostro pianeta, indipendentemente dalle sue sensibilità religiose. Il cibo, il nutrimento del corpo che è anche nutrimento della mente, del cuore e dello spirito, è ciò di cui tutti abbiamo bisogno per essere vivi e per vivere pienamente le nostre esistenze. Questa può apparire forse un’affermazione banale, una tautologia retorica, ma non dobbiamo dimenticarci che il mondo in cui viviamo oggi, nell’epoca della comunicazione, del mercato globale e di un pianeta interconnesso come mai nella storia, ancora non dà l’adeguato pane quotidiano a quasi un miliardo di persone in tre continenti.Con una produzione alimentare capace per quantità di nutrire 12 miliardi di esseri umani, 800 milioni dei 7,3 miliardi che siamo non ha ancora accesso a un adeguato livello di alimentazione, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo e culturale. Immediatamente sorge spontaneo chiedersi il perché questo succeda, che cosa non funzioni in un sistema che noi in occidente percepiamo come opulento e grasso, dove si è finalmente nell’epoca della libertà dal bisogno e dalla necessità, almeno dal punto di vista alimentare (anche per quanto riguarda il ricco occidente ci sarebbe comunque da fare alcuni distinguo e certo le situazioni critiche non mancano).Bene, ciò che non possiamo nasconderci è che questo sistema alimentare è un sistema fallimentare, almeno nelle sue derive recenti. Un sistema che in nome del dogma del libero mercato, che libero nella sostanza non è, affama proprio coloro che producono il cibo, accaparrandosi risorse non rinnovabili e comuni per metterle a frutto come un qualunque input industriale. A questo proposito basti pensare alla corsa alla terra che le grandi multinazionali e i fondi di investimento stanno realizzando a discapito di molti paesi africani, di vaste aree dell’est europeo, dell’America latina o di ampie porzioni del sudest asiatico. Oppure alla continua spinta verso la privatizzazione dell’acqua che, nonostante casi di resistenza popolare e comunitaria vincente come nel celebre ma ormai un po’ datato episodio di Cochabamba in Bolivia, in cui la comunità tutta si oppose vittoriosamente al progetto di privazione della gestione del servizio idrico locale da parte di una multinazionale con l’avallo della Banca Mondiale, non accenna ad arrestarsi nella pratica e nella teoria. Siamo intossicati dalla retorica per cui l’affidamento al privato, al capitale, sia l’unico modo di rendere efficiente e poco costoso l’accesso alle risorse primarie e ai servizi essenziali. Non è così, gli Stati non possono abdicare alla funzione per cui, per andare proprio al nocciolo, sono nati. Se non contrastiamo questa logica e questo preconcetto non possiamo dare un futuro al nostro cibo e al nostro pianeta.Il meccanismo di accaparramento e di concentrazione di potere e risorse in atto, infatti, fa sì che il cibo sia diventato a tutti gli effetti una qualunque merce prodotta utilizzando input come qualsiasi processo manifatturiero. Ma c’è almeno una enorme differenza. Acqua e suolo sono beni comuni, risorse non rinnovabili che noi abbiamo il dovere di riconsegnare intatte ai nostri figli e che non possiamo sperperare né distruggere in nome di una miope visione di corto raggio. E poi il cibo non può per sua stessa natura essere una merce poiché è ciò che consente all’uomo di vivere. Il cibo è semmai un diritto inalienabile (sancito già nel Patto Iìinternazionale sui Diritti economici, sociali e culturali del 1966, sottoscritto da 145 Paesi) e troppo spesso, nella pratica, alienato.Questo è il vero nodo. D’altronde anche qui pare di dire cose scontate: il cibo da sempre ha rappresentato per tutti i popoli e tutte le culture molto più del carburante necessario alla vita, al contrario il cibo è la mediazione con il sacro, è strumento e metronomo di relazioni sociali, di ritualità e di costruzione di senso comune, è definizione e disegno di spiritualità. Come coniugare questa complessità e questa profondità in un’epoca in cui la produzione mette tra loro contro la quota per consumo umano, quella per la nutrizione animale e addirittura la parte destinata a diventare carburante combustibile?L’umanità oggi deve domandarsi che cosa voglia che sia quel pane quotidiano cui tutti anelano, come vuole che venga prodotto e da chi, a quale costo per la nostra terra madre e per le generazioni che verranno dopo di noi. È una domanda epocale, cui nessuno può e deve sottrarsi. La risposta è complessa, piena di contraddizioni e di lacune, ma il suo inseguimento è l’unica cosa che può dare senso al nostro agire responsabile.
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