lunedì 3 ottobre 2011
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Nella stanza del figlio, a Casarsa della Delizia, la carta da parati è rossoblù come le maglie della sua squadra del cuore, il Bologna. Quella, nella casa materna, è la stanza del poeta, dell’intellettuale più illuminato del ’900 che questo Paese abbia avuto, Pier Paolo Pasolini. Il poeta civile che più di ogni altro ha indagato il costume italico, non poteva certo dribblare la materia calcistica, da sempre – con il ciclismo –, la più nazionalpopolare. Lo chiamavano “Stukas”, come i velocissimi aeroplani tedeschi, a quel ragazzino smilzo che scoprì la magia di un pallone di cuoio che rotolava sull’erba dei campi di Caprara. È lì che passava i pomeriggi dell’adolescenza, dalle parti dell’Ospedale Maggiore, nella natia Bologna. Da studente del liceo Galvani, prima della letteratura, scoprì la bellezza del “calcio di poesia” nell’imitazione quotidiana del “doppio passo”, il gesto tecnico sublime del suo idolo, Amedeo Biavati. Con Reguzzoni e Schiavio, Biavati, negli anni ’30, era il punto di riferimento di quella meglio gioventù che allo stadio, seduta sulle spalle dei genitori, gonfiando il petto urlava felice: «Il Bologna è uno squadrone/che tremare il mondo fa». Un amore, per quei colori rossoblù e per tutti coloro che indossavano la gloriosa maglia del Bologna, che Pasolini ha mantenuto per tutta la vita. «Soffrivo allora per questa squadra del cuore, soffro atrocemente anche adesso, sempre...», confidava. Dopo Biavati, solo un altro eroe della domenica (allora il campionato aveva un solo giorno, fisso) l’aveva rapito davvero, Giacomo Bulgarelli. Un eroe borghese, il numero “8” per antonomasia del Bologna scudettato del ’64 che al suo ingresso in campo faceva drizzare in piedi il trombettiere Gino Villani che prima dello squillo avvertiva la folla: «Ecco l’Onorevole Giacomino. Salute!». Pasolini era rimasto colpito dal quel giglio puro dei campi, compassato e geometrico che con lo “stukas” vero, Haller e l’ala Pascutti avevano fatto tornare grande il Bologna. Lo aveva attratto l’eleganza di quell’eterno collegiale, bolognese come lui (di Portonovo di Medicina, lì era nato nel 1940 e a Bologna è morto il 12 febbraio 2009), arrivato al palcoscenico del grande calcio dal campetto polveroso dell’oratorio di don Dante Barbanti e dalla squadra che come scrive Italo Cucci ne Il mondo di Giacomo Bulgarelli (Limina): «Era tutto un programma, si chiamava “O la va o la spacca”». E toccato dalla benedizione di Biavati, che lo inventò mezzala, il pensatore di centrocampo Giacomino, debuttante in serie A a 16 anni e e mezzo, spaccò il mondo. Incantò il popolo bolognese in quasi quattrocento repliche, con gol e pezzi di commedia dell’arte, specie con gli arbitri, che gli valsero il titolo di «Ermete Zacconi» del pallone. Una faccia da attore consumato, sotto il ciuffo fresco di stiro, quando 28enne con la Nazionale, nel turbolento ’68 all’Olimpico di Roma alzò al cielo la Coppa d’Europa. L’orgoglio bolognese di Pasolini a quel punto toccò l’apice. Dalle colonne del Giorno si esibì scrivendo il “Linguaggio del calcio”, in cui contrapponeva quello giocato in prosa da «prosatore realista» dell’amato Bulgarelli, al calcio poetico da «poeta realista» di Gigi Riva. Quella di Bulgarelli, per Pasolini, era una prosa con meno lampi di genio rispetto alla poetica di Rivera, ma comunque finemente letteraria. E il volto dell’onorevole Giacomino per il regista Pasolini, era adatto oltre che per gonfiare la rete anche per bucare il grande schermo. «Dovevate vederlo, quando Pier Paolo incontrò da vicino Bulgarelli, sembrava avesse visto Gesù...», raccontava divertito Sergio Citti. Pasolini provò a convincere Bulgarelli a recitare nelle scene infernali del suo film I racconti di Canterbury. Ma quello era ancora il tempo in cui i veri “poeti del gol” non sconfinavano in altri campi, neppure dietro l’assist allettante di una montagna di denari. Così l’unica apparizione in video (ma sul piccolo schermo) per il suo tifoso speciale, Bulgarelli la fece rispondendo all’intervista di squadra con cui Pasolini realizzò i Comizi d’amore. «Ci veniva a trovare durante gli allenamenti. Aveva un gran desiderio di parlare di calcio: io provavo a ribellarmi, a me interessava altro, ma lui monopolizzava tutti i discorsi, voleva sapere tutto dell’ambiente in cui vivevamo», ricordava Bulgarelli di quegli incontri preparatori per il documentario televisivo. Tra il poeta civile e quello del gol, non scattò mai l’amicizia, ma un profondo e reciproco rispetto per l’uomo e la sua opera sociale, quello sì. Ad accomunarli fino all’ultimo minuto della loro sfida terrena, è stata la passione sincera per il rito laico del calcio. «Lo sport è un fenomeno di costume talmente importante, che un male sarebbe per la classe dirigente e per gli intellettuali ignorarlo, e disinteressarsene», andava ammonendo Pasolini in quel decennio tra la metà dei ’60 e i ’70. Come nella cultura italiana, così anche allo stadio, Pasolini si sentì sempre un tifoso in trasferta, in estasi per la vittoria del Bologna o accecato da una rabbia adolescenziale per «l’umiliazione di un 4-1 subìto con la Roma». Con questo spirito frequentava l’arena dei moderni gladiatori con gli scarpini tacchettati, in compagnia dei rari amici intellettuali e calciofili: il tifoso della Spal Giorgio Bassani e lo juventino Mario Soldati. Ma solo con il narratore calato dal suo sipario ducale di Urbino, Paolo Volponi, condivideva la fede per il Bologna e per quella città che a distanza, da esule romano, nostalgicamente invocava in un autunno del secolo scorso. «E io so come sia terso in questo ottobre il colle di San Luca sopra il mare di teste che copre il cerchio dello stadio». Con Volponi, già prima dell’avvento di Bulgarelli, saliva fiducioso fino a Milano per la sfida contro l’Inter di Vittorio Sereni che provocava con sfottò epistolari. «Intanto ti avverto Vittorio che domenica il mio cuore è a Milano insieme a quello grassoccio di Volponi: tutti e due a palpitare fino all’orlo della trombosi. E mi dispiace che la gioia nostra sarà la tua disfatta». E Sereni ribatteva amaro dalla curva dell’opposta fazione: «Ieri ho visto al 90°, sul cielo di San Siro, effondersi il tuo ghigno e il serafico sorriso di quel Volpone di Volponi». Questi sono gli ultimi veri scampoli di quel che resta del calcio di poesia. Quello che Pasolini, nel segno del monumentale Biavati prima, e poi del giovane Bulgarelli, ha amato e giocato fino al novantesimo, sui campetti di periferia dove si davano appuntamento i ragazzi di vita delle sue care borgate. «Ogni volta che con Pier Paolo sentivamo il rumore di un pallone ci fermavamo e cominciavamo a giocare», ricordava divertito Ninetto Davoli. Con la sua maglia numero “11”, sul campo del Tufello, Pasolini ha provato e riprovato fino allo sfinimento quel “doppio passo” che era la metafora di un uomo che doveva accelerare sulla fascia sinistra, per provare a sfuggire alla morte. Ha giocato fino in fondo la sua partita, con coraggio e a testa alta. Come Bulgarelli, il quale forse non è un caso si sia ritirato dal calcio nel 1975, poco prima di quel 2 novembre in cui il poeta-tifoso venne assassinato. Nelle pieghe oscure e offensive del mistero della sua morte, tante sono le domande che Pasolini ci ha lasciate e a cui dobbiamo ancora rispondere, compresa una formulata in zona Cesarini: «Tutto è cambiato in questi trent’anni. Mi ricordo di quel tempo come se fosse il tempo di un morto; tutto è cambiato, ma le domeniche agli stadi, sono rimaste identiche. Me ne chiedo il perché…».
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