martedì 26 maggio 2015
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Oslo, 22 luglio 2011. Anders Breivik esce dall’appartamento di sua madre dicendole che sarà di ritorno all’ora di cena, poi si mette alla guida del camioncino dove ha stipato il potente ordigno che ha preparato ispirandosi a un video di al-Qaida trovato su internet. Lo fa esplodere in pieno centro, davanti al palazzo del primo ministro, uccidendo otto persone e ferendone oltre duecento. Poi si dirige verso il campo estivo giovanile del partito laburista, sulla vicina isoletta di Utøya. Compare all’improvviso, vestito da poliziotto, e comincia a sparare con fucili di precisione, uccidendo a sangue freddo 69 persone, in gran parte ragazzi e ragazze. La storia e i retroscena di quel giorno maledetto sono ricostruiti nel dettaglio nel nuovo libro di Asne Seierstad, One of Us, appena tradotto in lingua inglese e uscito negli Stati Uniti. Già autrice del fortunatissimo Libraio di Kabul, inviata di guerra nei fronti più caldi degli ultimi anni - dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Bosnia alla Cecenia - la giornalista norvegese ha indagato stavolta sulla più grave strage della storia del suo paese. Un lavoro interamente basato sulle dichiarazioni e gli scritti di Breivik, sugli atti del processo e le interviste alle persone coinvolte nella mattanza, i superstiti e i familiari delle vittime. Quello che emerge è il profilo inedito di un mediocre che è riuscito a cambiare per sempre la storia della Norvegia. «Un uomo diviso tra il narcisismo e il disprezzo di sé, ossessionato dalla lotta contro l’islamizzazione dell’Occidente, che desiderava a tutti i costi essere notato». Seierstad evita di demonizzarlo e di giungere a conclusioni affrettate sulle motivazioni del suo gesto ma ironicamente, il suo ritratto di Breivik assomiglia a quello dei jihadisti che lui diceva di voler combattere: l’infanzia difficile, i fallimenti affettivi e sociali, il senso di frustrazione e isolamento. Fino alle fantasie violente declinate prima su internet e poi nella realtà, con esiti drammatici. Lei ha seguito il processo a Breivik come fece Hannah Arendt per quello di Adolf Eichmann a Gerusalemme. È corretto parlare di "banalità del male" per il killer di Utøya?«Sì, anche se probabilmente nel caso di Breivik è più corretto parlare di vacuità, dal momento che i suoi ideali erano del tutto vuoti. Usava termini roboanti per parlare dell’islamizzazione dell’Europa e di come i musulmani europei dovessero essere convertiti, deportati o uccisi. Le oltre 1500 pagine del suo manifesto d’intenti affermano che le persone come lui hanno il compito di governare e ripulire l’Europa. E ha spiegato anche di aver ucciso i giovani sull’isola di Utøya per salvare la cultura norvegese ed europea. Ma quando è stato chiamato a rispondere di fronte al tribunale su quali valori intendesse salvare, non ha saputo cosa rispondere. Si è trovato in grave difficoltà a parlare della cultura norvegese, non ha fatto altro che sproloquiare. Si è persino messo a criticare fenomeni televisivi come la serie Sex and the City e l’Eurovision Song Contest dicendo che ci sono troppi cantanti di colore. È per questo che ha ucciso 77 persone? Anche i giudici sono rimasti esterrefatti dalla vuotezza e dalla superficialità del suo pensiero».Lei ha incontrato e intervistato sua madre. Quali elementi ha aggiunto alla sua indagine?«La sua ricostruzione dell’infanzia di Breivik e la sua totale rimozione dei momenti difficili di quegli anni. È una donna capace di vedere soltanto quello che vuol vedere, anche se almeno ha riconosciuto di aver fallito nel suo ruolo di madre. Non sono stata all’altezza, mi ha detto. Ma è stato abbastanza agghiacciante sentirle dire di aver perdonato suo figlio. Per cosa? Per i 77 morti, o piuttosto per il dolore che lui le ha causato? Hanno uno strano rapporto tra loro, molto intimo, ma al tempo stesso molto distante».Breivik si è rifiutato di concederle un’intervista. Quali domande avrebbe voluto fargli?«Prima di tutto, dubito fortemente che sarebbe stato sincero con me. Probabilmente avrebbe continuato con le menzogne che ha pronunciato in tribunale. Ma anche dopo aver letto le migliaia di pagine di deposizioni rilasciate alla polizia, gli interrogatori alle persone che lo conoscevano, averlo ascoltato in aula, aver letto il suo manifesto e aver infine scritto 500 pagine su di lui, ancora non sono in grado di rispondere alla domanda centrale: perché l’ha fatto? Alla fine, credo che l’abbia fatto soltanto per sé stesso». Quali contatti ha avuto contatti con lui mentre stava lavorando al suo libro?«Mi ha scritto un paio di lettere, dove di fatto mi chiedeva di scrivere il libro insieme, a quattro mani. Io avrei dovuto scrivere l’inizio e la conclusione - secondo la sua proposta - e lui la parte centrale. Solo a quella condizione mi avrebbe concesso un’intervista. Ovviamente ho rifiutato».Cosa risponde a chi sostiene che il suo libro non fa altro che dare ulteriore risalto all’opera di un serial killer?«Chi ha letto il libro non può affermare una cosa del genere. La madre di una ragazzina uccisa sull’isola mi ha scritto di averlo letto, pur con grande sforzo, e di esser giunta alla conclusione che rappresenta una dichiarazione d’amore nei confronti delle vittime. Se può leggerlo anche una madre distrutta dal dolore - nonostante l’inevitabile attenzione che viene data all’uomo che ha ucciso sua figlia a sangue freddo - allora credo che possa farlo chiunque. So invece che Breivik odia questo libro. Mi hanno detto che non vuol neanche sentirne parlare». Le stragi di Utøya e di Oslo hanno cambiato il suo paese?«Per fortuna la Norvegia poggia su fondamenta assai solide, che non possono esser spazzate via dall’opera di un terrorista. Il mio paese è ovviamente segnato, tutti siamo segnati da quanto è accaduto. Abbiamo vissuto una terribile tragedia che ci ha divisi e uniti allo stesso tempo, una ferita dalla quale stiamo ancora cercando di riprenderci».
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