mercoledì 10 giugno 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
È forse stato il primo amico arabo di nome Khaled che abbia conosciuto... Nome che mi ha sempre colpito, in quanto significa "eterno" ma non rientra nei 99 appellativi divini che figurano nel Corano (dove ve ne sono altri che hanno lo stesso significato). Un nome dunque arcaico, preislamico, puramente arabo e che tuttavia indica la medesima sete di vita senza fine avvertita anche dagli antichi abitanti del deserto. E proprio dall’Algeria, il cui paesaggio è dominato dalle sabbie del Sahara, veniva. Gli ho sempre invidiato di esser stato discepolo di Mohammed Arkoun, suo conterraneo, professore alla Sorbona e tra i maggiori pensatori musulmani moderni, spentosi a Parigi nel 2010. La sorte non è stata altrettanto generosa con lui, che tuttavia è stato tra i primi e pochi islamici in Italia ad ottenere una cattedra universitaria. Infaticabile viaggiatore e facondo oratore, in innumerevoli convegni, interventi mediatici e pubblicazioni Khaled Fouad Allam si è sempre sforzato di offrire un contributo accessibile ma non banale all’ardua impresa di decifrare i dilemmi del suo mondo di provenienza, seguendo i metodi di analisi propri della sociologia e dell’antropologia culturale. Una voce pacata fra tanto chiasso, un uomo di confronto e di dialogo, autore di articoli – fra cui una rubrica per un anno su Avvenire nel 1994-1995 (alternandosi con l’allora rabbino capo della Comunità ebraica di Milano Giuseppe Laras), giornale con cui continuò spesso a collaborare – e volumi che hanno saputo parlare a tanti senza scadere in inutili o controproducenti concordismi, ma altrettanto alieno alla verve polemica che troppo spesso ancora prevale in materia; tra questi, "L’islam globale" (Rizzoli 2002), "Lettera a un kamikaze" (Rizzoli 2004), "La solitudine dell’Occidente" (Rizzoli 2006), "L’islam spiegato ai leghisti"(Piemme 2011), "Il jihadista della porta accanto" (Piemme 2014). Nel 2008 scrisse un articolo (il primo scritto da un musulmano) sull’Osservatore Romano" proprio sul concetto di "eternità" in cui si leggeva fra l’altro: «Stiamo da tempo vivendo una crisi globale e proprio per questo la riflessione sul dialogo tra islam e cristianesimo merita di essere riproposta sotto una nuova angolazione. Le relazioni tra queste due grandi religioni sono ovviamente antiche, non solo per la prossimità geografica ma per la storia delle due tradizioni spirituali. Proprio per questa crisi generalizzata bisogna pensare il dialogo tra cristianesimo e islam nella sua dimensione filosofica, vale a dire nella ricerca e nell’analisi di ciò che potrebbe aiutarci a individuare i pericoli di questa crisi e come superarla. È sempre nell’esperienza del dolore, del male e della sofferenza che gli esseri umani sono chiamati alle proprie responsabilità dinanzi alla storia e all’eternità». In un forum tenuto presso la redazione di "Avvenire" nel gennaio scorso, pochi giorni dopo l’attentato terroristico alla redazione parigina di "Charlie Hebdo", ebbe a dire: «Non ci si può accontentare di invocare un islam più laico e, quindi, più libero. Il vero problema è, ancora una volta, quello della secolarizzazione, che per l’Europa non si limita alla rivendicazione del principio di uguaglianza, ma comporta un divorzio profondo fra l’io e la dimensione religiosa, in un percorso di soggettivizzazione per cui la religione, per quanto importante, non è comunque più importante di altri valori». E più avanti aggiungeva: «Le profanazioni dei simboli religiosi sono sempre esistite, ma la reazione alle vignette di "Charlie Hebdo" si inserisce in uno scenario differente, è lo scontro fra due tipi di sacralità: una di tipo tradizionale, di cui i terroristi sostengono di essere i paladini, e un’altra di matrice laica, profana, che ha nella libertà il suo vessillo. Ora più che mai è urgente interrogarsi su come mettere in comunicazione queste mentalità contrapposte, evitando così ulteriori violenze».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: