martedì 20 gennaio 2015
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La questione del rifiuto dei governi alleati di bombardare sia le ferrovie che trasportavano i prigionieri ad Auschwitz sia le installazioni destinate allo sterminio ha suscitato nel dopoguerra grandi polemiche e aspri dibattiti; ancora oggi sull’argomento sono in uscita ben due volumi: Bombardare Auschwitz di Umberto Gentiloni Silveri (Mondadori, pp. 128, euro 17) e Bombardate Auschwitz di Arcangelo Ferri (Il Saggiatore, pp. 184, euro 16). Perché queste linee di comunicazione non furono poste tra gli obiettivi alleati? Perché gli angloamericani non cercarono di fermare così la macchina dello sterminio?La richiesta di bombardare le linee che terminavano nel binario morto di Auschwitz-Birkenau fu rivolta agli alleati dalle istituzioni ebraiche e dal governo polacco in esilio nella primavera-estate del 1944. All’epoca, Auschwitz funzionava a pieno regime ed era rimasto l’unico in funzione dei 5 campi di sterminio iniziali: Belzec era stato chiuso nel 1943, Majdanec stava per essere smantellato in previsione dell’arrivo dell’Armata Rossa, mentre a Treblinka e Sobibor erano state sospese le esecuzioni di massa dopo due tentativi di rivolta. Ad Auschwitz, invece, i treni piombati continuavano a fermarsi, rigettando sempre nuove vittime. Solo a novembre l’attività del campo si sarebbe arrestata, in seguito all’avanzata dell’Armata Rossa che il 27 gennaio avrebbe liberato il campo. Cominciavano allora le marce della morte per spostare i prigionieri verso ovest, nei campi di concentramento in Germania. Cominciava anche la demolizione delle strutture di Auschwitz, per tentare di celarne il funzionamento ai vincitori.Nella primavera del 1944 stava per iniziare la deportazione degli ebrei ungheresi, che fu diretta da Eichmann e si svolse con grande velocità tanto da portare allo sterminio di mezzo milione di ebrei ungheresi in pochi mesi. I treni dei deportati viaggiavano a pieno regime perché lo sterminio fosse completato prima che le truppe russe arrivassero in Polonia. Per fermarlo era essenziale quindi impedire i trasporti. Ma era anche essenziale avvisare gli ebrei ungheresi che la deportazione non era rivolta a un campo di lavoro, ma alle camere a gas. Nessuna di queste due condizioni fu realizzata.
Proprio allo scopo di impedire la deportazione degli ebrei ungheresi, la rete clandestina di resistenza aiutò nell’aprile 1944 la fuga da Auschwitz di due giovani prigionieri ebrei, Rudolf Vrba (il vero nome era Walter Rosenberg) e Alfréd Wetzler. Essi riuscirono a raggiungere la Slovacchia dove resero una testimonianza accuratissima, ratificata e controfirmata, di quello che avevano visto nel campo. Sono i cosiddetti «protocolli di Auschwitz», che l’organizzazione clandestina ebraica mise subito in circolazione insieme con la raccomandazione agli stati maggiori dell’esercito alleato di bombardare le linee ferroviarie per Auschwitz.I protocolli raggiunsero le cancellerie europee, la stampa, i Paesi neutrali, la Croce Rossa, il Congresso Mondiale Ebraico. Si ottenne un primo arresto delle deportazioni dall’Ungheria, seguito però nell’autunno, dopo la presa del potere diretto da parte dei nazisti, dalla deportazione a tappe forzate di quasi tutti gli ebrei ungheresi. Intanto, nell’estate del 1944, l’aviazione inglese aveva fotografato il campo di Auschwitz dall’alto. L’impresa era stata resa possibile grazie all’installazione nell’Italia meridionale liberata di basi aeree. Le foto miravano però non ad individuare gli obiettivi di Auschwitz da colpire, ma a preparare il terreno al bombardamento degli stabilimenti della Farben, l’industria chimica importantissima per le sorti della guerra, che aveva stabilito i suoi modernissimi impianti presso Auschwitz, a Buna, utilizzando come manodopera i prigionieri del lager (fra loro Primo Levi ed Elie Wiesel). Le bombe colpirono ben 5 volte la fabbrica, e in un caso raggiunsero per errore anche Auschwitz, senza tuttavia recar danno alla linea ferroviaria.Ma perché questa decisione dei comandi alleati? Da una parte c’era la volontà di evitare che il conflitto si trasformasse in una guerra a difesa degli ebrei; dato l’antisemitismo presente anche nei Paesi in lotta con Hitler, combattere «per gli ebrei» avrebbe potuto diventare un’arma di propaganda nelle mani dei nazisti. Inoltre l’essenziale era vincere la guerra: non esistevano obiettivi intermedi. Lo aveva già detto il vice primo ministro inglese Clement Attlee nel gennaio 1943: «L’unico rimedio reale alla pesante politica nazista di persecuzione razziale e religiosa consiste nella vittoria degli Alleati. Ogni risorsa deve essere impiegata in vista di questo obiettivo supremo».In quest’ottica tutti i tentativi di salvataggio organizzati dall’Agenzia Ebraica fallirono, compreso quello di liberare un milione di ebrei in cambio di diecimila camion, bloccato  dagli inglesi con l’arresto a Istanbul del negoziatore che trattava con Eichmann, Joel Brand: un’iniziativa che avrebbe salvato tutti gli ebrei ungheresi. Gli alleati, quindi, non misero la salvezza degli ebrei fra gli obiettivi prioritari. Lo sguardo era già volto al dopoguerra, al processo di Norimberga, ai rapporti tra le potenze vincitrici. Le foto di Auschwitz, con il fumo dei crematori, restarono 60 anni sepolte negli archivi, senza essere neppure analizzate. Intanto si compiva lo sterminio.
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