giovedì 8 marzo 2012
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​Ho conosciuto Bhatti. Il ministro per la difesa delle Minoranze era venuto a Roma nel settembre del 2010 per incontri importanti, tra cui l’udienza con Benedetto XVI. Colpiva per la serenità e il coraggio. Non aveva l’aria dell’eroe o del protagonista. Avrei dovuto incontrarlo di nuovo in Pakistan, avevo fissato l’appuntamento proprio due giorni dopo il suo assassinio nel cuore di Islamabad. Poi, all’improvviso, il 2 marzo del 2011, mi fermò la tragica notizia: l’attentato, in pieno giorno, nel cuore di Islamabad. Diceva un grande cristiano, il poeta David Maria Turoldo: «Essere stati amici e commensali di grandi è un fatto che ci mette a nudo e ci rivela che abbiamo imparato poco, che non ci siamo convertiti, che siamo quelli di sempre». Siamo stati amici e commensali di Bhatti. Lo ricordo a cena, a Sant’Egidio, la sera dell’11 settembre 2010, dopo una partecipata preghiera in memoria delle vittime dell’attentato alle Torri Gemelle.Essere sopravvissuti ai martiri, come amava sottolineare Giovanni Paolo II, è prima di tutto un debito di memoria. Bhatti è morto per una causa: liberare i cristiani del Pakistan dalla paura, dall’umiliazione e dalla marginalità, senza mai cercare lo scontro, insieme a un buon gruppo di politici e religiosi musulmani. In questo senso, per le sue battaglie civili, in Shahbaz c’è qualcosa che ricorda Martin Luther King, assassinato nel 1968, proprio l’anno in cui era nato il ministro martire.Bhatti era un cristiano innamorato del suo Paese. Nonostante le minacce concrete alla sua persona, non aveva mai pensato di abbandonarlo. Lottava e sognava un futuro diverso con una passione tutta evangelica. A soli tredici anni comprese che la sua «vocazione» era quella di spendersi «per i cristiani e per i poveri». Era un venerdì santo e – racconta lo stesso Bhatti – aveva appena ascoltato una predicazione sul «sacrificio di Gesù». Una fede profonda accompagna anche tutto il suo percorso politico. Non era ancora ventenne quando, con i suoi compagni di lotta, riuscì a bloccare un progetto di legge che avrebbe obbligato ogni cittadino pakistano ad aggiungere la propria confessione religiosa sulla carta d’identità. Dopo le battaglie portate avanti con il suo Christian Liberation Front (Clf), a difesa dei diritti dei cattolici e dei protestanti, fondando l’Apma (All Pakistan Minorities Alliance) intuì l’importanza di un patto con le altre minoranze presenti nel Paese e del lavoro a favore di tutti i poveri e le vittime dell’ingiustizia, senza distinzioni. Tanto che, in occasione del terribile terremoto che colpì il Pakistan nel 2005, si preoccupò che gli aiuti raccolti arrivassero a tutti, a partire dai musulmani che erano rimasti senza casa. Bhatti era convinto che la giustizia resa alle minoranze rendesse il Pakistan migliore per tutti, anche per la maggioranza musulmana.Proprio del rapporto con i musulmani fece uno dei punti cardine del suo programma una volta diventato ministro, con autorevoli amicizie costruite con passione, dal governatore del Punjab, Salman Taseer, ucciso in un attentato due mesi prima di lui, fino all’imam della grande moschea di Lahore, Abdul Khabir Azad, passando per innumerevoli altri contatti. Bhatti credeva fermamente nel dialogo, inteso come conoscenza diretta, amicizia, frequentazione, ricerca di una soluzione comune dei problemi. Portò avanti con coraggio, a partire dagli anni Ottanta, una forte battaglia per modificare la tristemente famosa legge sulla blasfemia, che ancora oggi conduce a giudizio troppi innocenti. Nella sua difesa di Asia Bibi, la donna cristiana diventata simbolo di questa lotta a livello mondiale – e che molti indicano come prima causa della sua morte insieme a quella del governatore Taseer, un giusto musulmano – pensò che il metodo migliore fosse il confronto: soddisfatto per la solidarietà internazionale attorno alla vicenda, era convinto però che la soluzione si sarebbe dovuta trovare in Pakistan, con le autorità religiose e civili del Paese. Bhatti non era un uomo di partito e non avrebbe voluto diventare né parlamentare, né ministro. Ma alla fine, dopo molte resistenze, accettò di assumere un incarico politico.In appena tre anni (dal 2008 al 2011) raggiunse risultati insperati con un’intelligente opera di mediazione. Le sue conquiste vanno dalla legge nazionale che stabilisce, per gli uffici pubblici, l’obbligo di assumere almeno il 5% del personale tra le minoranze religiose, all’istituzione della Festa delle Minoranze, l’11 agosto, giorno anniversario dello storico «discorso alla nazione pakistana» con il quale, nel 1947, Ali Jinnah proclamò uguali diritti per tutti i cittadini. Dopo la morte di Bhatti è sopravvissuto il suo Ministero, anche se ora ha un nome diverso, mentre suo fratello Paul è diventato consigliere speciale del primo ministro per le Minoranze nel difficile tentativo di portare avanti la sua eredità politica. Shahbaz ci lascia soprattutto un grande patrimonio spirituale. Ha fatto politica con una missione molto chiara, utilizzando gli strumenti istituzionali offerti dallo scenario pakistano. All’inizio del XXI secolo, la sua figura, aureolata dal martirio, si propone come modello di politico cristiano, che non ricerca il proprio interesse, ma serve il suo Paese e i più deboli tra i suoi concittadini.
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