mercoledì 6 maggio 2015
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Prete a fianco dei poveri e degli operai, cappellano militare (negli alpini e poi in marina) nei due conflitti mondiali, antifascista da sempre, padre nobile della riforma liturgica post-conciliare, esempio di vita e di spiritualità del futuro Paolo VI (che lo definì «maestro della cultura cattolica»), raffinato organista ma soprattutto primo cardinale parroco nella storia della Chiesa.Sono i tratti essenziali che hanno cadenzato la vita dell’oratoriano Giulio Bevilacqua (1881-1965), della cui morte oggi ricorrono i 50 anni. Un personaggio rivestito di quella «sana follia e buonumore» appresa alla scuola del fondatore della sua congregazione, san Filippo Neri, ma anche armato di una finezza teologica imparata dall’altro confratello John Henry Newman (proprio di questo si accorgerà il filosofo Jean Guitton, dopo tanti incontri a Roma); forse però, e più di ogni altra cosa, un prete che proprio per il suo stare dalla parte degli ultimi, scegliendo sempre di vivere in una parrocchia di periferia («la mia chiesa baracca») come quella di Sant’Antonio in via Chiusure a Brescia, appare oggi quasi un antesignano dello stile  pastorale e di magistero impresso da Papa Francesco.Ma chi era questo carismatico sacerdote filippino veronese, ricordato ancora oggi per il suo motto di vita «Amo la Chiesa, e perciò parlo chiaro» e per prediligere, già prima del Vaticano II, l’uso dell’italiano al latino? Giulio Bevilacqua nasce il 14 settembre 1881 a Isola della Scala (Verona); subito dopo si trasferisce a Brescia, dove frequenta l’alunnato filippino presso l’Oratorio della Pace fin dal 1896. A lasciare una traccia indelebile sulla sua formazione teologica e soprattutto “cristocentrica” sono la frequentazione dell’università di Lovanio (1902-1905) e l’incontro con la guida carismatica e gli insegnamenti del futuro primate del Belgio, il cardinale François Joseph Mercier.
Ordinato sacerdote a Brescia il 13 giugno 1908, il giovane filippino fa emergere da subito la sua predilezione e attenzione alle questioni sociali, a cominciare dalla vicinanza a un prete molto discusso come Romolo Murri – ma anche a un sacerdote di grande zelo apostolico, don Giovanni Calabria. È lo scoppio della guerra a rivelargli fin in fondo la sua definitiva scelta di vita, come avrà a scrivere nel suo saggio La luce nelle tenebre, e a fare di lui un buon «pastore di anime» nella veste di cappellano degli alpini durante il conflitto del ’15-’18.L’avvento del fascismo nella “sua” Brescia farà invece presagire a padre Bevilacqua, a lui prima di tanti altri, la deriva anticristiana della dittatura mussoliniana; ferme e senza tentennamenti saranno le sue parole, interventi pubblici contro il regime per il suo autoritarismo, per la «violazione delle coscienze» (uguali critiche le riserverà, anche se con accenti diversi, a padre Agostino Gemelli e all’Azione Cattolica di Pio XII); accuse che il religioso indirizzerà direttamente al ras locale Augusto Turati e che faranno scoppiare nel 1926 quello che i media del tempo bolleranno come “il caso Bevilacqua”; da allora padre Giulio sarà costretto a lasciare Brescia per essere destinato a Roma, chiamato dalla Santa Sede a ricoprire l’incarico di consultore della Congregazione per i religiosi, dimostrando in quel frangente – come dirà don Primo Mazzolari – di essere «magnifico nell’obbedienza».Ed è proprio negli anni romani che si cementa ancora di più attorno alla Chiesa nuova dei padri filippini (non distante da piazza Navona) l’amicizia con il suo «don Battista» Montini, allora minutante alla Segreteria di Stato; anni che videro padre Bevilacqua, dopo dettagliati rapporti al papa Pio XI, scegliere come missione l’annuncio della fede nei quartieri più degradati di Roma. Calmate le acque nel 1933, il carismatico padre filippino può tornare finalmente nella sua Brescia all’Oratorio della Pace e riprendere così la vita di «povero parroco» e poi rivestire di nuovo i panni del cappellano militare, questa volta in marina, durante la seconda guerra mondiale.Ma il nome di Bevilacqua è anche da associare a quelli dello storico Mario Bendiscioli e del filosofo Michele Federico Sciacca per l’impulso dato alla nascita  il 1° gennaio 1946 della rivista scientifica Humanitas, edita da Morcelliana; il nome e l’impegno culturale di Bevilacqua nella coscienza civile e religiosa italiana emergeranno soprattutto per il suo spessore di studioso e di pensatore di razza: tante sono infatti le prefazioni firmate per libri importanti di Romano Guardini (Lo spirito della liturgia), di Karl Adam (L’essenza del cristianesimo) o ancora del calvinista Max Thurian (Maria madre del Signore immagine della Chiesa).Un’autorevolezza dunque conquistata non solo nel campo del fare ma anche nel sapere: elementi che spingono Giovanni XXIII a nominare nel 1960 l’ormai quasi ottantenne oratoriano membro della Pontificia Commissione della sacra liturgia per la preparazione del Concilio; rilevante sarà il contributo di padre Bevilacqua per la stesura definitiva della costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium (1963). Come certamente singolare e inaspettata sarà la scelta del segretario di Giovanni XXIII, Loris Capovilla, di chiedere all’anziano religioso di scrivere l’introduzione all’opera postuma di Roncalli: Il Giornale dell’anima.
Ma è con l’elezione al soglio di Pietro del suo «discepolo» Montini che la vita pubblica di padre Bevilacqua cambia: accompagna Paolo VI nel suo primo viaggio in Terra Santa nel gennaio 1964 (proverbiali le sue parole: «Bene, don Battista, finora ho pensato che avresti asfaltato e messo i lampioni alla strada tracciata da Papa Giovanni. Ora sono sicuro che andrai oltre»). Pochi mesi dopo, il 22 febbraio 1965, viene creato cardinale con la dispensa – solo a lui concessa – di conservare l’ufficio di «semplice prete» («Sì, preferirei restare parroco a Brescia». E Paolo VI: «Lei ha scelto proprio ciò che desideravo»).Vestito degli «stracci rossi» (come amava definirli), il cardinale-parroco conduce l’ultima parabola di vita nella chiesa di Sant’Antonio a Brescia, ormai minato dagli acciacchi della vecchiaia e della malattia, spegnendosi a 84 anni il 6 maggio 1965, avverando anche un altro sogno: una «beata morte» in tutto simile a quella sperimentata da due figure a lui molto care, il gesuita Teilhard de Chardin e il benedettino Odo Casel. A tanti anni di distanza rimane ancora viva la sua eredità di «pastore d’anime» e di un uomo che, come affermò nel giorno dei funerali il cardinale Giovanni Colombo, fu in grado di «approfondire, vivere e predicare il mistero di Cristo».
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