giovedì 9 gennaio 2014
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Chissà se a Vito Teti piacerebbe la definizione «antropologia struggente» per indicare il piglio con cui affronta il saggio Maledetto Sud appena edito da Einaudi. È un aureo libretto che scardina, destrutturandoli per spiegarne la malevole e ingenerosa origine, i più brutti luoghi comuni sul Sud. Stereotipi pericolosi che, da un lato, suscitano negli stessi meridionali vittimismo e rassegnazione, dall’altro alimentano ancora forme di razzismo e di esclusione, nonostante siano passati più di 150 anni dall’Unità. Vito Teti, ordinario di Etnologia e direttore del Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo dell’Università della Calabria, è un difensore appassionato del suo Sud. Però non fa sconti a nessuno, nemmeno ai meridionali. Professore, il Sud diventa un’alterità proprio con l’unità italiana. Come è vista quest’altra Italia?«Da sempre e fino agli ultimi decenni permane un doppio atteggiamento nei confronti del Sud. È visto, da un lato, come luogo dell’alterità e della diversità; dall’altro, come il luogo della bellezza, delle ricchezze naturali. Entrambi gli sguardi alimentano un doppio stereotipo: è enfatico e finisce con l’inverare una sorta di maledizione e incomprensione degli altri. Il Sud continua a essere vittima dello sguardo degli altri.»Il Sud più che capito vorrebbe essere amato. Lo è?«Nella gran parte delle letture che se ne fanno non c’è amore.Diceva Corrado Alvaro che il calabrese vuole essere "parlato". Il Sud vorrebbe parlare, esprimersi, dire la sua, invece spesso deve accontentarsi o dello sguardo ostile degli altri o della reazione risentita a questo sguardo ostile. Il Sud, anche con i suoi elementi non condivisibili, resta sempre un luogo che va amato, riguardato. Amarlo non vuol dire assolverlo o fare una sua difesa a oltranza, significa guardarlo nella sua complessità, nelle sue luci ed ombre.»Sudici, oziosi, malavitosi, briganti... Come è nato lo stereotipo di questo Sud maledetto?«C’è una tradizione di lunga durata che erroneamente viene ricondotta all’unificazione nazionale. Sono i mercanti genovesi e milanesi, sono i viaggiatori dell’Europa settentrionale del Grand Tour che si affezionano a un Sud esotico, bello, del dolce far niente, dove le popolazioni sono arcaiche e primitive. La famosa immagine di Croce del paradiso abitato da diavoli è quella che racchiude meglio questo luogo comune che poi prenderà corpo e diventerà una sorta di paradigma razziale e razzistico tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento fino ad oggi.»Questo stereotipo è servito a qualcuno?«All’indomani dell’unificazione è sicuramente giovato ai gruppi dirigenti settentrionali e meridionali per continuare a esercitare il loro controllo sociale e culturale. Era il versante ideologico di una sorta di capitalismo che veniva esercitato nelle campagne di espulsione delle persone ritenute inadeguate alla modernità. La polemica che fanno gli antropologi positivisti nei confronti dei meridionali è che hanno un io mobile, sono inquieti e inadatti con la loro labilità alla società moderna, quindi all’industria, quindi alla fabbrica, quindi all’organizzazione sociale.» Questa antropologia positivista, insomma, serve a normalizzare le popolazioni turbolenti del Sud e a legittimare un colonialismo interno? «Il Risorgimento al Sud prima dell’unificazione fu un momento di grande novità e un tentativo di apertura alla modernità. Da Galanti, da Cuoco, da Poerio e da tutti i patrioti meridionali viene già una critica del Regno delle Due Sicilie. La risposta fu di tipo repressivo: l’incarcerazione, vere guerre civili. Nel 1848 i Borbone spararono sulla folla in Calabria, bombardarono Messina e Palermo. I piemontesi poi distrussero interi paesi.»E quando l’Italia fu finalmente unita?«Abbiamo forme di penetrazione coloniale che veniva suggerita già da Napoleone Colajanni o da Gaetano Salvemini. Il Sud è trattato come una colonia interna, vengono smantellate le piccole economie locali, l’artigianato, e comincia l’esodo di massa. Questa espulsione che dura ancora è una sorta di colonialismo che sposta contadini e braccianti dove si produce.»Come leggere, dunque, questo Sud?«Andrebbe guardato come luogo abitato né da diavoli né da angeli, ma osservato nella sua normalità. Il Sud deve scoprire un nuovo linguaggio, deve dare nuovo senso a definizioni che lo hanno costretto a un’identità angusta, chiusa, monocromatica, astorica. Deve assumersi lo stereotipo per rovesciarlo, per mostrare quanto sia infondato, spesso razzista. Ha bisogno di un nuovo vocabolario, dove pietas, melanconia, nostalgia assumano un valore oppositivo e rigenerativo, e non lacrimevole e restaurativo. Bisogna che lo amino i meridionali il Sud, senza retoriche e con comportamenti coerenti, se si vuole che venga amato e riconosciuto nella sua problematicità, nei suoi bisogni, nelle tante potenzialità che ha espresso nei periodi migliori della sua storia e che oggi tornano a riaffiorare con segni e piccole utopie di riscatto e di rigenerazione, di rinascita.»
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