venerdì 27 febbraio 2015
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Sebbene sia da qualche anno in pensione per raggiunti limiti di età, il critico d’arte Claudio Spadoni ha mantenuto l’incarico di direttore ombra del Mar, il Museo d’arte di Ravenna. In testa al catalogo della mostra che si è appena aperta Spadoni figura come curatore, ma, come mi spiegano quelli che bazzicano più da vicino Ravenna, egli nella veste di consulente è ancora il vero deus ex machina di ciò che accade nel museo che, in effetti, fu una sua creatura dopo la carriera come direttore dell’Accademia di Belle arti. Spadoni negli anni è cresciuto, per quanto possa valere questa espressione quando si è giunti all’età della pensione, e oggi è un personaggio potente che ha mano forte anche in Arte Fiera. Insomma, in pensione in Italia si aspira ad andare un po’ tutti, ma poi si cerca in ogni modo di restare in sella (per arrotondare?). È, decisamente, un Bel Paese, il nostro: han voglia quelli che gridano, magari senza conoscerne le origini nel lontano Ventennio, «largo ai giovani». I giovani, nel Bel Paese, nonostante il vento di giovanilismo imperante, sono sempre un’espressione di chi la poltrona la molla soltanto formalmente per farsi poi «grande vecchio» che tutto da dietro controlla. Fra «brillante promessa» a «venerato maestro», si sa, stando all’apocrifo di Arbasino, quale sia il guado che in genere si vorrebbe evitare.È dunque questo lo stesso Bel Paese che l’attuale mostra di Ravenna vuol ravvisare nelle sue origini lontane e forse infangate anche più di quanto non si potesse immaginare all’epoca? Stiamo parlando dell’Italia «dal Risorgimento alla Grande Guerra» ovvero «dai Macchiaioli al Futuristi», secondo il sottotitolo della mostra: che già se sul piano storico non è confutabile (come si fa a confutare il tempo cronologico? chiedo venia ai maestri della fisica), certo fa rabbrividire all’accostamento di due ambiti artistici che più lontani non potrebbero risultare (a riprova che il Bel Paese dell’abate Stoppani non ha nulla a che fare con quello che era veramente all’epoca). E in mostra questo abito lacero si trova a essere rammendato con una tale insulsa «continuità» visiva da domandarsi se vi sia un pensiero critico dietro questa mostra. Ora, confesso candidamente di annoiarmi assai quando vado a vedere mostre che in gran parte pescano nell’Ottocento italiano, perché se è vero che il nostro Ottocento ci fu un tempo in cui si trovò troppo bistrattato, è altresì vero che la solfa sugli «impressionisti italiani» (come titolava un paio d’anni fa la mostra all’Orangerie: Les Macchiaioli. Des Impressionnistes italiens) tradisce l’essere, la sostanza della nostra pittura e, in definitiva, anche il senso “tragico” che sta dietro l’espressione Bel Paese. Ascoltai a lungo Federico Zeri, ospite a casa sua, mentre mi spiegava l’importanza dell’Ottocento europeo che pure non era stato impressionista, ma fra i nomi per i quali lo vidi quasi infervorarsi non c’era praticamente nessun italiano, piuttosto Alma Tadema, Hunt, Frederick Leighton – genere hollywoodiano, insomma –, e di Fattori elogiava i paesaggi, il resto, si può immaginare che suono avesse col suo accento romanesco e scaramantico, era meglio dimenticarlo («gose sinistre, squallide, jettatorie» disse).Ecco, l’Italia è il Bel Paese di una borghesia renitente, ancorata a una moralità che finisce, nella pratica, per sacrificare le plebi, bistrattate, tradite, immolate sull’altare di una unificazione, certo anche necessaria; ma poiché si prende come limite estremo la Grande Guerra (pur senza celebrarla), non si deve dimenticare quanta carne spinta al macello venne presa dalle campagne e dalle classi più povere di una nazione sempre da farsi (per cui, tanto sangue che irriga la terra). Che senso ha, allora, fare una mostra «cartolina» trattando un argomento che, per quanto lontano nel sentire di tanti, è un fuoco non ancora spento della nostra identità? Non basta il quadro coi bersaglieri alla Presa di Porta Pia dipinto da Michele Cammarano (oltre tre metri d’altezza, di collezione privata: bisogna avere una casa grande per appendere alle pareti un quadro di queste dimensioni, che pare chiamarci dentro, e soprattutto avere un senso della storia ben preciso, sennò si ricade nel kitsch e lo si riduce piccolo piccolo, a immaginetta della “Domenica del Corriere”); e neppure la metafisica e surreale colonna di bersaglieri che scortano i prigionieri austriaci dipinto da Silvestro Lega; non bastano pochi esempi per parlare di «epoea» (magari «infranta», come titolava un saggio di Massimo Onofri).
Non c’è dubbio che le nozze non si fanno coi fichi secchi; e quando accade, bisogna essere abili inventori, illusionisti raffinati. La mostra di Ravenna invece è una passerella di ovvi pensieri e di opere non sempre all’altezza. Spadoni: «La buona ritrattistica, nelle sue diverse tipologie e interpretazioni, è uno specchio fedele della borghesia più agiata, quanto quella discriminante, ma anche solidale, con le figure più miserevoli»: a parte l’italiano che resta un po’ sospeso, l’ovvia affermazione è disattesa dall’assenza pressoché totale in mostra di una ritrattistica degna di essere presa in considerazione. E il seguito grida contro quello stesso Bel Paese abitato da gente che soffre, si umilia, subisce soprusi dai borghesi del tempo: «Certe immagini dei più umili lavori quotidiani, che insistono sulla vita nei campi, nelle stalle, nei luoghi dove il tempo pare essersi fermato, in scene di genere di un Paese ancora lontano dal progresso industriale». A parte ancora l’italiano zoppicante (questione più che mai emblematica del Bel Paese irrealizzato), non era proprio questo lo specifico degno di essere preso di petto e mostrato? L’Italia degli umili e delle borghesie che stentano a essere, come qualcuno ancora nel secondo dopoguerra auspicava, le classi dirigenti di una nazione troppo divisa da un sottile filo di risentimento che nulla aveva di classista, era atavico come atavica è la condizione degli uomini della terra di cui Pasolini lamentò la fine e lo sradicamento industriale. È lungo questa proda che la mostra avrebbe dovuto spingersi, con un coraggio che non è neppure lontanamente ravvisabile. E l’agognata pensione, agognata da tanti, per alcuni dovrebbe essere un sogno da abbracciare senza ripensamenti, sapendo di avere la gratitudine, e il benestare, del Bel Paese per i preziosi servigi resi (?) al bene comune.
Ravenna, Museo d’arteIl Bel PaeseFino al 14 giugno
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