giovedì 19 dicembre 2013
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Mistico e pastore, ma soprattutto un vescovo che rimase un contemplativo per tutta la sua vita. È sicuramente questa la cifra più significativa della biografia e dello stile apostolico del cardinale Anastasio Alberto Ballestrero (1913-1998), frate carmelitano, arcivescovo di Bari e di Torino e presidente della Cei dal 1979 al 1985. Un personaggio che ha segnato un solco profondo nella vita ecclesiale italiana post-conciliare e di cui, quest’anno, ricorre il centenario della nascita; a ottobre la diocesi di Torino, di cui Ballestrero fu arcivescovo dal 1977 al 1989, ha voluto celebrarlo con un convegno. Restano ancora attuali la sua spiritualità interiore, la pratica degli esercizi spirituali, il suo amore per gli ultimi, la sua venerazione per il Carmelo («La mia patria del cuore»); un’eredità mai sopita che è rimasta viva in Italia non solo grazie alle sue pubblicazioni (molte delle quali salvate grazie alle registrazioni: non prese mai appunti scritti) e tracce pastorali ma anche all’azione discreta di due tra i suoi più stretti collaboratori: lo storico segretario, il padre carmelitano Giuseppe Caviglia (che assieme a Paola Alciati manda in questi giorni in libreria il volume Un’ombra che non fa ombra; Ocd, pagine 346, euro 16,00) e l’arcivescovo emerito di Lanciano-Ortona, Carlo Ghidelli, che negli anni difficili alla guida della Cei fu al fianco di Ballestrero nella veste di sottosegretario.Ma chi era il carmelitano scalzo fra’ Anastasio del Santissimo Rosario, prima di essere nominato vescovo sulla cattedra di San Nicola a Bari da Paolo VI, nel 1973? Ballestrero nasce a Genova il 3 ottobre del 1913 e viene ordinato sacerdote nel capoluogo ligure il 6 giugno del 1936; rilevante in quegli anni sarà la frequentazione a Parigi del circolo animato da Jacques Maritain: «Furono soprattutto – raccontò lo stesso futuro cardinale – le settimane di Parigi dai Maritain che mi diedero modo di conoscere Bergson, Gertrud von Le Fort, padre Garrigou-Lagrange, monsignor Gérard Philips, padre Schillebeeckx, allora giovanissimo e ancora tomista di razza». Ma è nell’arte degli studi e soprattutto del governo del suo ordine che Ballestrero darà il meglio di sé: eletto superiore provinciale del Carmelo ligure (1948-1954), a 42 anni viene scelto come preposito generale dei carmelitani scalzi (1954-1967). Il suo generalato sarà cadenzato da importanti tappe per il Carmelo: le visite nei luoghi più sperduti, dall’Iran all’America Latina tra cui quella inaspettato in Papuasia (dove incontrerà la carmelitana madre Marie Christiane, la sorella del vescovo Marcel Lefebvre che «già allora obbediva più al fratello che non al suo ordine»), o in Terra Santa, dove grazie all’intervento dell’ex presidente Usa Eisenhower riuscì ad avere indietro i terreni appartenuti al Monte Carmelo e sequestrati dall’esercito israeliano. Capolavoro della sua azione di generale dei carmelitani sarà soprattutto l’opera di conservazione e restauro di due perle della letteratura spagnola (ancora oggi conservate nei monasteri spagnoli dell’ordine): Il castello interiore di santa Teresa d’Ávila e Il cammino di perfezione di Giovanni della Croce. Un capitolo cruciale della vita di Ballestrero sarà certamente la sua partecipazione al Vaticano II nella veste di perito: si deve a lui se la costituzione pastorale Gaudium et spesincomincia con le parole “gioia e speranza” e non con l’incipit Angor et luctus. Nell’aula di San Pietro padre Ballestrero si batterà sempre per la difesa e attuazione del Concilio (diventerà, tra l’altro fraterno amico di Henri-Marie de Lubac e del giovane vescovo Karol Wojtyla), ma prenderà le distanze da quell’ansia di aggiornamento che definirà, con molta ironia, «prurigo novitatis»; in quegli stessi anni si batterà per la salvaguardia della solitudine nelle clausure e contro l’ingresso della tv nei conventi in nome della «fedeltà al carisma teresiano». Il 27 settembre del 1970 Paolo VI proclamerà Dottori della Chiesa Teresa d’Ávila e Caterina da Siena: il grande ispiratore, anni prima, di un gesto così dirompente era stato proprio il padre carmelitano ligure.Il vero fulmine a ciel sereno nella vita di Ballestrero avverrà tre anni dopo con la sua nomina inaspettata ad arcivescovo di Bari (1973-1977). Alla «matura età di sessant’anni» si trovò a cambiare vita: nella diocesi barese imparò a fare il vescovo, a incontrare i carcerati e gli ultimi e a «farsi amare come un umile frate», come scrisse “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Nel 1975 Paolo VI lo chiamerà in Vaticano a predicare gli Esercizi spirituali; ma l’avventura di Ballestrero come “vescovo contemplativo” culminerà con la sua nomina ad arcivescovo di Torino nel 1977 e nel difficile passaggio di testimone con il carismatico cardinale Michele Pellegrino. Sarà proprio padre Anastasio a chiedere al suo predecessore sulla cattedra di San Massimo di rimanere nella città subalpina come arcivescovo emerito: «Se il mio predecessore lascia la diocesi, io a Torino non vado – furono le parole di Ballestrero rivolte a Paolo VI –. Non voglio essere il castigamatti di nessuno». I dodici anni di Ballestrero a Torino saranno cadenzati dal dramma del terrorismo delle Br ma anche della sua vicinanza agli operai di Mirafiori; come turbolento sarà il periodo della sua presidenza della Cei, costellato da tappe importanti per la Chiesa italiana: dal referendum sull’aborto alla firma del nuovo concordato, dall’attentato a Giovanni Paolo II al laborioso iter per l’approvazione della seconda edizione del messale romano in lingua italiana. Toccherà sempre a questo mite ma fermo carmelitano promuovere, nell’aprile del 1985, a Loreto il convegno ecclesiale della Cei sul tema “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”. Nel 1988, con il placet della Santa Sede, Ballestrero darà il suo consenso agli esami al carbonio 14 sulla Sindone; sarà proprio lui a comunicare il risultato di quell’indagine, che collocava la datazione del tessuto sindonico in epoca medievale. Il suo comportamento fu vissuto da una parte del mondo cattolico come troppo “accondiscendente” verso il mondo della scienza. Nel libro di Caviglia si torna sulla sofferenza del cardinale per la vicenda. Da queste pagine emergono le verità di Ballestrero, la dinamica complessa di quegli esami, la sua fede personale nei confronti del velo sindonico e il suo coraggio (testimoniato anche da un’intervista del 1997 riportata nel libro) di «dimostrare che la Chiesa non è mai stata nemica della scienza»; ancora emerge come in ogni passaggio cruciale di quelle analisi il cardinale si mosse «di concerto con la Santa Sede» e come ancor oggi la Sindone rimanga per tutti, anche per il mondo accademico («soprattutto non cattolico») un «mistero inspiegabile e ancora tutto da scoprire».Lasciato il governo della diocesi di Torino nel 1989, Ballestrero deciderà di ritornare alla radici della sua vocazione ritirandosi fino al giorno della morte, il 21 giugno 1998, nel monastero carmelitano di Bocca di Magra; nei giorni successivi, per suo volere, verrà sepolto nell’eremo del deserto di Varazze, nel luogo dove maturò la sua vocazione carmelitana. Per tutti da allora, così scrissero in molti, rimarrà il “vescovo che fu monaco per tutta la sua vita”.
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