sabato 22 febbraio 2014
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Si parla tanto di tivù spazzatura, di trash, di arte che non è più arte perché spesso è meno di niente, che a volte un infortunio come quello occorso a un’addetta alle pulizie a Bari un paio di giorni fa rischia di illuminare la realtà più di qualsiasi giudizio della critica. L’arte oggi è così vaga e così confusa con altre cose che arte non sono, che non stupisce che un "operatrice ecologica" abbia preso fischi per fiaschi. In sostanza, nella sala Murat dove è in programma la mostra Display Meeting Landscape (già il titolo induce a pensieri insani e alla voglia di farla finita con certe esterofilie linguistiche), si verifica una sorta di "incidente probatorio": la donna delle pulizie vede della carta di giornale e del cartone in un angolo e pensa di fare il suo lavoro, quello per cui è pagata, raccattando la "spazzatura" per portarla in discarica. Si tratta, in realtà, di due opere d’arte, o sedicenti tali. Smaltimento rifiuti, ecco il destino dell’arte in una società dove la spazzatura genera profitti (ma non in Italia, all’estero invece ci fanno una montagna di soldi). La povera donna adesso è affranta, tutti la descrivono come attenta e meticolosa. Le istituzioni si scusano per l’accaduto (è una frase di rito), tanto paga l’assicurazione. L’assessore elogia le capacità "mimetiche" degli artisti «che hanno saputo interpretare al meglio il senso stretto dell’arte contemporanea, cioè quello di interagire con l’ambiente circostante». In realtà, il fatto non è nuovo. Esistono precedenti autorevoli. La retorica del reale è insidiosa, spinge a prendere le cose come ci appaiono. Vedendo un cumulo di spazzatura in un angolo, la prima cosa che verrebbe in mente è che va raccolta e gettata nella pattumiera. Però, se la spazzatura occupa uno spazio in bella vista nella sala di un museo, dovrebbe sorgere il dubbio che, quella "cosa" (montagnola di rifiuti, stracci sporchi o cartacce), costituisca una stranezza. Lo spirito di osservazione dei critici d’arte di oggi agisce in modo non diverso da quello che muoveva Morelli, il fondatore del metodo attributivo, quando doveva decifrare la paternità di un dipinto. Il particolare strano è il sintomo che guida il conoscitore verso una personalità e uno stile che cercano spazio nella sequenza storica dell’arte. Quando questo non accade, e qualcuno prende alla lettera ciò che vede, ovvero considera quell’ammasso di rifiuti per quello che sembra ecco che l’arte ha veramente dato il suo frutto più perfido. Ha preso il posto del reale. È la favola di Zeus e Parrasio portata nella realtà più prosaica. Si ricorda ancora un fatto clamoroso che ebbe come teatro una Biennale di Venezia di qualche decennio fa. Era esposta la porta di Duchamp che ruotando si chiudeva e si apriva contemporaneamente su due stanze unite nell’angolo sul quale la porta era incardinata. Aveva l’aspetto poco attraente di una vecchia porta, la vernice ingiallita e scrostata, segni di usura… Stonava con le pareti della stanza, appena riverniciate e dunque sfolgoranti di bianco puro. La mentalità moderna tende a vedere nel bianco il colore neutro ideale. Il bianco sa farsi accogliente verso ogni opera; ma questa sua "capacità" lo rende onnivoro, colore che tutto ingloba nel suo ventre. L’uomo della strada, anche quando non è inesperto delle azioni paradossali che l’arte contemporanea propone indossando volentieri la maschera dell’"assurdo" per épater les bourgeois, è facile preda di questa mentalità: una vecchia porta, segnata dal tempo e dall’uso, che cosa può avere di artistico? Niente. È chiaro - lo sarebbe a chiunque -, che quella porta è una porta, che altro sennò? Siccome il decoro era un valore che fra la gente comune resisteva ancora, per quanto già eroso da un gusto sciatto, ostentato e carente di cultura, che cosa pensò l’operaio della Biennale? Poiché aveva dato una mano di bianco alle pareti, ridipinse anche la porta per renderla presentabile ai visitatori della mostra. Tragedia! Orrore! Sacrificio! Processo, condanna, risarcimento del danno. Nel nostro tempo, l’arte si misura più sulle mazzette di banconote che sulla qualità estetiche e critiche. Eppure, quel gesto inopportuno, ingenuo e di buon senso, avrebbe dovuto essere premiato: meritava il Leone d’oro per il genio anonimo che interpretò alla perfezione l’ideale filisteo che ispira molte opere di Duchamp. Fu quello, dunque, il caso provvidenziale dove il ruolo attivo dello spettatore di fronte all’opera d’arte si realizza. Che questo avvenga all’oscuro dell’intrinseco valore artistico dell’opera, non cambia il senso straordinariamente attuale del qui pro quo: facendo della porta un oggetto "presentabile", decoroso, l’imbianchino ha completato l’opera negandola in quanto opera e restituendola al suo valore di oggetto d’uso comune. Seppur non intenzionale, o proprio in quanto non progettato, quel gesto costituisce un formidabile reagente critico contro il feticismo che ha trasformato l’arte in un bene economico accessibile soltanto alle élites. La vicenda di Bari si era verificata anni fa anche in un museo di Berlino dove la solita donna delle pulizie trovando in una sala una montagnola d’immondizia, pensò bene di raccoglierla e buttare tutto nella pattumiera. La zelante signora delle pulizie aveva buttato nel bidone un’opera del sommo Joseph Beuys. Per fortuna in tanti resiste ancora l’orgoglio di far bene ciò per cui si viene pagati. Così l’operatrice ecologica: l’immondizia, signori miei, non si lascia in mezzo alla stanza in bellavista. Ah, l’adorabile e mitica donna delle pulizie…
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