lunedì 4 maggio 2015
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In principio era il tema. E il tema è la Parola che si fa carne. Non una volta e basta, ma in modo che in ogni momento si possa ripetere il miracolo. Questa è la genesi del padiglione della Santa Sede alla Biennale d’arte di Venezia, che viene inaugurato venerdì 8 maggio. «Non dovendo rappresentare uno Stato, ma la Chiesa universale, il tema non poteva che essere tratto dalle Scritture. Il “Principio” riferito al momento creatore raccontato nella Genesi è stato il tema della prima partecipazione due anni fa. Per questo secondo Padiglione siamo tornati sul tema del “Principio”, ma nell’accezione del Prologo del Vangelo di Giovanni. Ed è partendo dall’adesione a questo tema che sono stati scelti i tre artisti che rappresenteranno la Santa Sede».Micol Forti è la curatrice del Padiglione della Santa Sede alla Biennale. È docente di Storia dell’arte alla Sapienza ed è direttore della Collezione di arte contemporanea dei Musei Vaticani. Con lei abbiamo cercato di comprendere l’avventura che dal tema ha condotto alla scelta degli artisti e ha portato alle opere esposte.Un complesso lavoro di selezione.«Un lavoro durato un anno e mezzo nel corso del quale siamo passati attraverso una prima selezione di circa 400 nomi. A questi, oltre all’aderenza al tema, abbiamo applicato alcuni parametri che ritenevamo significativi: dare spazio ai giovani, rappresentare più continenti e culture, favorire la presenza delle donne. Così siamo arrivati a Mario Macilau, Elpida Hadzi-Vasileva e Monika Bravo».Nel realizzare le loro opere gli artisti hanno dovuto rispettare indicazioni precise oltre al Prologo di Giovanni?«Sono stati liberi di fare, secondo la loro sensibilità. Non volevamo che si trattasse di una vera committenza, né che ci fosse un vincolo liturgico. Un’indicazione ulteriore è stata data affiancando la Parabola del Buon Samaritano al tema originario, per esemplificarlo e attualizzarlo».Cominciamo col parlare del più giovane, che è anche l’unico uomo.«Mario Macilau ha 30 anni. È del Mozambico e fa il fotografo. Quando ha conosciuto il tema del padiglione ha spiegato di essere sempre stato colpito dalla parabola del Buon Samaritano e ha deciso di rappresentarla attraverso i problemi dell’infanzia negata. Anche lui ha avuto un’infanzia difficile nelle periferie di Maputo. Per lui il salto è stato a 15 anni, quando ha deciso di fare il fotografo. Professione che ha sempre interpretato come artista, mai come reporter. I 9 scatti (2 metri per 1,33) che ha preparato per la Biennale sono dedicati all’infanzia nelle periferie africane e fanno parte di un lavoro che sta portando a compimento sui bimbi nelle periferie del mondo».Ha spiegato cosa l’ha colpito della parabola del Buon Samaritano?«Da due cose, in particolare: il Samaritano è l’unico che si ferma e il suo gesto non determina il cambiamento degli altri protagonisti. L’oste prende i soldi e non propone di pensare lui a tutto. Nella parabola il gesto del “prossimo” non genera altra “prossimità”. È questa la denuncia dell’africano Macilau: “Nella mia vita ho visto che i gesti di aiuto sono rari e spesso non ne generano altri”».Poi ci sono le due donne: la cinquantenne Bravo e la quarantenne Hadzi-Vasileva...«Monika Bravo è del 1964. È colombiana e vive fra New York e Bogotà. Lei è partita dalla Parola come origine della creazione e della storia e ha interpretato il concetto utilizzando un semplice sistema di proiezioni. Le parole del Prologo in greco antico, scomposte e ricomposte, sono proiettate su pannelli (circa quattro metri per quattro) sui quali si muovono immagini fisse di acqua, foglie, alberi, cielo. Tutto questo montato insieme in una stanza crea uno straordinario effetto di tessitura».Come se fosse un grande telaio?«Esatto. Un telaio sul quale sembrano riproporsi le forme e i colori tipici della tessitura colombiana. Le parole greche del Vangelo si intrecciano alle immagini come se fossero fili di un ordito. L’idea è quella della Parola che nel farsi carne dona nuova forma, nuova sostanza, un nuovo ordine al Creato».L’installazione più complessa è quella macedone Hadzi-Vasileva.«Elpida Hadzi-Vasileva è nata nel 1971 a Kavadarci nella Repubblica Macedone. Anche lei vuole interpretare il concetto del Verbo che si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi. Lo fa con una straordinaria architettura fatta di interiora di animali, aperte, lavate e trattate in modo da realizzare delle funi e un tessuto trasparente e colorato dall’effetto suggestivo».Anche qui un tessuto... L’ordito della storia?«Una storia che in questo caso prende vita e spunto, dall’Adorazione dell’Agnello mistico di Jan van Eyck. L’Agnello al centro, con le quattro stirpi che giungono dai quattro angoli della Terra per adorarlo. Il tutto in una sorta di stella a cinque punte che Elpida ha rappresentato come una grande tenda (la biblica tenda del Convegno) realizzata con un telo trasparente intessuto delle sottili pareti degli intestini incollati su di esso. L’intero ambiente è attraversato da funi, sempre realizzate con interiora di animali. Hanno colori diversi e rappresentano le genti che convergono, divergono, si incontrano, si dividono al cospetto dell’Agnello».Qual è il significato delle interiora?«Sono materiali di scarto, raccolti nelle macellerie e trattati in modo tale da costituire uno straordinario ricamo, un merletto attraverso il quale la luce passa donando al tessuto svariati colori. Un tessuto fatto di carne. Una carne di scarto trasfigurata dalla luce del Cristo. Elpida ha molto riflettuto sul tema della resurrezione e della trasfigurazione. Inoltre per la stesura del saggio che accompagna la sua opera sul catalogo della Biennale ha scelto il teologo britannico Ben Quasc che spiega il significato delle viscere, come interiorità del sentire, nella Bibbia».Nel presentare il Padiglione il cardinale Ravasi ha parlato del tentativo che la Chiesa sta facendo per saldare il doppio divorzio consumato nel ’900 fra arte e fede e fra arte e fruizione popolare... Queste opere sono sulla strada giusta?«Non esisterà mai il momento della saldatura. Fra dieci anni forse sapremo se quello che abbiamo fatto è sulla buona strada. Credo però sia fondamentale quello che in tutta la Chiesa si sta facendo per riaprire il dialogo con l’arte contemporanea. Anche il Pontificio consiglio per la cultura si propone di portare presto il confronto su temi liturgici (forse già dalla prossima Biennale). Si tratta di passi che io credo realizzeranno la storia di questa duplice saldatura. È questo che rende vitale il rapporto fra arte e fede. Anche il modo in cui i fedeli si sentono coinvolti deve sempre essere rifondato. Se tutto questo fosse sempre uguale a se stesso non ci sarebbe più bisogno dell’arte».
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