martedì 28 agosto 2012
Mercoledì si inaugura la 13esima Biennale attorno al tema, voluto da David Chipperfield, «common ground», il terreno comune dell’abitare. Meglio delle archistar la progettazione collettiva.
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Common ground, terreno comune. È il tema voluto dall’inglese David Chipperfield per la 13° Biennale di Architettura che si inaugura domani a Venezia. Intelligente e provocatorio: perché mira al cuore della crisi attuale (nonostante i fasti apparenti) di un’architettura sempre più ipertrofica e spettacolare, la cui capacità iconica appare ormai ridotta alla dimensione del logo. Un ritorno al passato per essere moderni? Allo spirito, per lo meno: «L’ambizione di Common ground è soprattutto quella di riaffermare l’esistenza di una cultura architettonica costituita non solo da singoli talenti - scrive Chipperfield - ma anche da un ricco patrimonio di idee differenti riunite in una storia comune, in ambizioni comuni, in contesti e ideali collettivi». Identità e comunità. Parole che fino a poco prima di questa crisi sembravano tabù. E che invece sono chiamate oggi a ridare senso alla forma del vivere che è l’architettura.La reazione del sistema si articola in 69 progetti disposti nei 10mila metri quadrati dell’Arsenale e del Padiglione Centrale ai Giardini. Su incoraggiamento del curatore, architetti, fotografi, artisti, studiosi selezionati hanno esteso l’invito a colleghi (per un totale di 119 partecipazioni) in una logica di rete e continuità, prima esemplificazione del common ground. Ma in alcuni casi, anche l’ultima. Perché proprio dalle archistar è arrivata la risposta più deludente. L’invito di Chipperfield all’architettura a uscire dal suo solipsismo era esplicito. Nella migliore delle ipotesi le grandi firme si sono limitate a mostrare collaborazioni e influenze: Grafton Architects mostrano il loro rapporto con Paulo Mendes da Rocha, i portoghesi Alvaro Siza Vieira (Leone d’Oro alla carriera 2012) e Eduardo Souto de Moura instaurano un poetico dialogo al Giardino delle Vergini. Vorrebbe essere un dialogo anche quello di Francisco e Manuel Aires Mateus con il Sansovino delle Gagiandre ma è un soliloquio. Peter Einsenman in Piranesi Variations coinvolge gli olandesi Dogma e studenti di università americane in un divertissement di fanta-architettura sulla base dell’altrettanto fantastica ricostruzione di Roma antica dell’architetto incisore. Zaha Hadid, che in Arsenale porta Arum, enorme fiore d’acciaio, mette in mostra i suoi debiti con architetti come Felix Candela e Heinz Isler (e con un certo immaginario anni ’60). L’altrimenti grande Peter Zumthor fa girare a Wim Wenders un documentario su di lui. Non manca la riflessione sulle reciproche pressioni esercitate da architettura e contesto. Herzog e De Meuron portano attraverso le pagine dei giornali tedeschi l’accesissimo dibattito pubblico sulla loro Elbphilharmonie di Amburgo, Norman Foster con gli artisti Carlos Carcas e Charles Sandison propone una tonitruante installazione sull’architettura e sull’uso che ne fanno gli uomini. Altri, come nell’edificio in scala reale in legno di O’Donnel e Tuomey, lavorano sulla capacità dell’architettura di orientare la lettura dello spazio circostante. Interessante il collettivo Ruta del Peregrino (molto ampio, contempla giovani architetti svizzeri e messicani ma anche lo studio di Ai Weiwei) che ha lavorato sull’omonimo cammino di 117 chilometri in Messico percorso ogni anno da 2 milioni di persone dirette alla Vergine del Rosario di Talpa: scopo del progetto era dotare di strutture (ostelli, cappelle, punti panoramici) il percorso in simbiosi con il suo spirito. L’architettura come risposta è anche quella di 13178 Moran Street, collettivo che nella degradata di Detroit ha acquistato per 500 dollari una casa abbandonata e l’ha trasformata in laboratorio in cui sperimentare soluzioni abitative (riproposte in Arsenale in scala 1:1) in un contesto sociale problematico.Ma è nella ricerca di stimolare processi dal basso che si trovano gli spunti più interessanti di questa Biennale sul tema del common ground. Il terreno comune diventa sinonimo di bene comune. Scompare la città firmata (esemplari le ricerche di Jasper Morrison e Reinier de Graaf rispettivamente su design anonimo e grande architettura realizzata da membri di uffici comunali), ma non è nemmeno la devastazione della città spontanea. Atelier d’Architecture Autogérée porta i processi condivisi e di resistenza urbana che hanno consentito alla popolazione di riappropriarsi di Colombes, nei dintorni di Parigi; Alejandro Aravena ed Elemental gli interventi di progettazione collettiva in situazioni di estrema complessità in Cile (così come è interessante la mostra del padiglione cileno, in cui problematiche e risorse passano sopra un suolo di sale).
Il modello di quello che oggi chiameremmo ecomostro (per fortuna mai realizzato) di Robert Burghardt nella prima sala farebbe presupporre a un percorso di autocritica nei confronti di certe pretese utopiche (e nei fatti totalitarie) del modernismo. C’è, ma non arriva direttamente dagli architetti (non si avverte, ad esempio, nella mostra sul social housing di Sergison e Bates). Ci pensano le fotografie di Thomas Struth, disposte come un leit motiv, in cui la tristezza di Dessau pare invidiare l’allegra povertà delle casette di Lima e l’alienazione dei quartieri residenziali di Seoul sembra solo più chic di quelli di Pyongyang. Il gruppo di storici dell’architettura olandesi Crimson analizzano la trasformazione delle New Town da progetti basati su welfare e collettività a soluzioni che, basate su speculazioni edilizie e prive di un politica pubblica, scollano lo schema formale dagli ideali e puntano all’individualismo e alla separazione dal resto della società. L’accusa all’architettura è di aver abdicato dal suo ruolo per accettare quello, eccitante, di creatrice di immagini. «Potremo mai scambiarlo – chiedono provocatoriamente i Crimson – con la noia di progettare per la vita quotidiana di milioni di persone?».
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