venerdì 16 marzo 2012
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​Eugene Rogan l’aveva previsto: «Se i popoli arabi vogliono il rispetto dei diritti umani, governi degni di fiducia, sicurezza e crescita economica dovranno impegnarsi direttamente», aveva scritto nel 2009. I fatti degli ultimi, sorprendenti mesi che hanno visto il vento del cambiamento soffiare dal Maghreb alla Penisola arabica gli hanno dato ragione. E Rogan, direttore del Centro per gli studi sul Medio Oriente dell’Università di Oxford, resta ottimista anche riguardo il prossimo futuro. «I cambiamenti politici a cui abbiamo assistito sono stati massicci: ovunque abbiamo visto la fine di autocrazie di lunghissimo corso, interi popoli hanno vinto la paura di cui erano rimasti prigionieri per decenni, e penso che questa spinta verso la democrazia si allargherà sempre più nella regione», spiega il professore anticipando alcuni dei temi che affronterà oggi all’università Ca’ Foscari di Venezia, dove terrà una lezione su Reflections on Year 1 of the Arab revolutions, un bilancio - appunto - a un anno dall’inizio delle rivoluzioni nel mondo arabo.«Certo, le rivoluzioni per loro natura non sono mai del tutto prive di rischi: resta sempre una dose di imprevisto», ammette Rogan, autore tra l’altro del denso volume Gli Arabi (pp.764, euro 26), in uscita per i tipi di Bompiani: un viaggio attraverso la storia del mondo arabo dalle conquiste ottomane ad oggi, prezioso per capire il passato di questa variegata regione del mondo, comprenderne il presente e intuirne il futuro.Professor Rogan, qual è la costante più rilevante dei diversi rivolgimenti a cui abbiamo dato il nome di "primavera araba"?«Direi la nascita dell’islam come forza politica legittimamente eletta al governo e non più come movimento di opposizione. Un fenomeno che introduce elementi di novità sia all’interno delle singole società, dove i gruppi politici di matrice islamica dovranno dimostrare la loro capacità di rispondere a sfide cruciali come la creazione di occupazione, il rilancio del turismo e il rispetto degli impegni internazionali, ma anche nel rapporto tra questi Paesi e il resto del mondo». In che senso?«Dopo dieci anni di lotta al "terrorismo", che l’Occidente aveva identificato con l’islam stesso, ora la comunità internazionale si trova costretta a confrontarsi con governi legittimi di tendenza islamica. Ed è fondamentale che essa non rigetti questi interlocutori, ma li giudichi in base alle loro azioni, a cominciare dal tipo di esecutivi che formeranno, dalle Costituzioni che redigeranno e dal loro rispetto per le regole democratiche».Che spazio resta per i giovani che hanno dato avvio alle rivolte? E l’età anagrafica, molto bassa in tutti i Paesi arabi, è garanzia di maggiore laicità?«La primavera araba non è solo opera dei giovani, anche se è vero che i ragazzi, mobilitati a decine di migliaia attraverso i social network che hanno aggirato divieti e censure, hanno offerto molti degli strumenti per il cambiamento. Tuttavia, passate le rivolte di piazza, questi giovani non sono stati in grado di confrontarsi con successo con le prove elettorali, in cui gruppi ben più organizzati, come la Fratellanza musulmana in Egitto, hanno capitalizzato i frutti delle mobilitazioni. Ma non dobbiamo nemmeno fare l’errore di considerare automaticamente progressiste le nuove generazioni: fin dall’inizio si è verificato uno scontro tra le diverse anime di movimenti e gruppi politici, e tra le fila dei conservatori si trovano anche molti under 30».Nel secolo scorso buona parte del mondo arabo visse un rinascimento culturale, la "nahda", che produsse un ricco pensiero laico: pensa che sia possibile oggi ricostruire un’identità comune araba non basata sul fattore religioso?«Ciò che vedo oggi è una grande frammentazione nel mondo arabo: ci sono forti divisioni etniche, religiose - tra islam maggioritario e minoranze -, ma anche settarie, tra confessioni diverse all’interno della galassia musulmana. Lo scontro tra sunniti e sciiti è attualmente molto duro».Qual è il ruolo dei cristiani nelle nuove società arabe? Avranno uno spazio nella ricostruzione civile dei propri Paesi o sono destinati a essere relegati al ruolo di "minoranza"?«La situazione è molto diversa a seconda dei Paesi. Dal punto di vista della partecipazione dei cristiani alla politica, ad esempio, in Palestina ci sono molti esempi positivi. Ben diverso il caso dell’Iraq, dove i cristiani sono molto marginalizzati: proprio la percezione di non avere uno spazio è all’origine del loro massiccio esodo dal Paese. In Siria, da ciò che possiamo sapere sembra che la minoranza cristiana sostenesse il regime di Assad, per paura di una possibile islamizzazione della società, ma abbiamo anche testimonianze di cristiani che si sono schierati contro il governo: è impossibile generalizzare».Da questo punto di vista, qual è il contesto che la preoccupa di più?«L’Egitto. Qui i cristiani rappresentano tra il 10 e il 12% della popolazione. Nei mesi scorsi si sono verificati episodi di violenza nei loro confronti, roghi di chiese ad opera dei salafiti, scontri a matrice religiosa... Ma otto milioni di cristiani non possono certo emigrare in massa: dove potrebbero andare? È dunque fondamentale vigilare perché i loro diritti siano rispettati. Credo tuttavia che il governo dei Fratelli musulmani abbia tutto l’interesse a non dare un’immagine oscurantista di sé di fronte al mondo».Qual è il rischio più grave per la primavera iniziata nel 2011?«Il populismo. È più pericoloso dello stesso islamismo».
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