giovedì 4 luglio 2013
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Dobbiamo partire da una domanda di fondo, affatto scontata: perché ammonire i peccatori? E poi: come fa ad essere un’opera di misericordia quella che appare e viene considerata piuttosto come un’azione negativa verso una persona? La nostra generazione si premura piuttosto che l’individuo assecondi la sua volontà e pensa peccato quello che l’individuo sente come tale. Ci sentiamo in diritto di consigliare, eventualmente, suggerire, ma non di ammonire qualcuno. Lo facciamo solo di fronte ad una patente violazione del pensare comune, come se lasciare soli sia rispetto o restare indifferenti significhi comprensione dell’altro! La vera regola è quella dell’individualismo. La convinzione diffusa è che il singolo sia l’unico giudice di se stesso e che nessuno può intervenire nella vita dell’altro, soprattutto se non richiesto. In realtà chi non ammonisce giudica e non si prende responsabilità, osserva ma non dice nulla per banale quieto vivere, per pigrizia, per indifferenza, per non avere problemi. Tutti cerchiamo, a volte con disperazione e in modi contraddittori, consigli, parole, percorsi terapeutici, da cui finiamo per dipendere, proprio per essere ammoniti e quindi, aiutati. L’individuo da solo non è in grado di orientarsi, di ritrovarsi, di capire! Abbiamo sempre bisogno dell’altro! Davvero l’uomo non è un’isola! Vogliamo, però, conservare, per paura, l’alibi, e forse l’illusione, di non avere dipendenze, legami forti, insomma che sono sempre io a decidere, che posso farlo quando voglio e che comunque io sono il padrone pienamente consapevole di me stesso. Qualcuno che mi ammonisce e, quindi anche io che ammonisco un altro, trasgredisce la finta coscienza dell’individualismo, appare come una intromissione nella sacralità della persona, richiede una responsabilità che non ci sentiamo di prenderci e una preoccupazione per l’altro tale da violare il confine dell’io. Insomma chiedere aiuto o accettare l’intervento di un altro sono giudicati una sconfitta per una generazione il cui “noi” è evanescente, cangiante, spesso solo virtuale e così la vera legge imposta è quella disumana dell’autosufficienza. Papa Benedetto, con profonda sapienza umana ed evangelica, diceva: “L’uomo può accettare se stesso solo se è accettato da qualcun altro. Ha bisogno dell’esserci dell’altro che gli dice, non soltanto a parole: è bene che tu ci sia. Solo a partire da un "tu", l’"io" può trovare se stesso. Chi non è amato non può neppure amare se stesso. Questo essere accolto viene anzitutto dall’altra persona”. (Benedetto XVI, 22.XII). Egli aveva dedicato la lettera pastorale della Quaresima 2012 proprio a spiegare il senso della correzione fraterna, così desueta in epoca di imperante individualismo più attenta a cercare asettici percorsi formativi piuttosto che appassionate avventure umane e spirituali. Un’epoca di benessere spirituale soggettivo piuttosto che di vita fraterna comunitaria e di amicizia. Prevale la paura di farsi carico l’uno dell’altro, cioè di vero amore reciproco. Infatti, ammonire non è liberarsi dell’altro con un giudizio, ma legarsi a lui, aiutarlo. Chi ammonisce deve volergli ancora più bene! L’ammonimento per essere credibile richiede insistenza e fedeltà, non è un gesto di impulso per mettersi a posto la coscienza! Solo un amore così permette di cambiare e di comprendere il nostro peccato! Papa Benedetto, partendo proprio dalla fraternità come motivazione principale della correzione. “Il grande comandamento dell'amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell'altro un vero alter ego, amato in modo infinito dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di fraternità, la solidarietà, la giustizia, così come la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore. Il Servo di Dio Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità. La cultura contemporanea sembra aver smarrito il senso del bene e del male, mentre occorre ribadire con forza che il bene esiste e vince, perché Dio è «buono e fa il bene» (Sal 119,68). La responsabilità verso il prossimo significa allora volere e fare il bene dell'altro, desiderando che anch'egli si apra alla logica del bene; interessarsi al fratello vuol dire aprire gli occhi sulle sue necessità”. Benedetto XVI metteva in guardia da una ”anestesia spirituale”. ”Prestare attenzione” al fratello comprende altresì la premura per il suo bene spirituale. “Nella Sacra Scrittura leggiamo: «Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s). Cristo stesso comanda di riprendere il fratello che sta commettendo un peccato (cfr Mt 18,15). Il verbo usato per definire la correzione fraterna - elenchein - è il medesimo che indica la missione profetica di denuncia propria dei cristiani verso una generazione che indulge al male (cfr Ef 5,11). La tradizione della Chiesa ha annoverato tra le opere di misericordia spirituale quella di «ammonire i peccatori». E’ importante recuperare questa dimensione della carità cristiana. Non bisogna tacere di fronte al male. Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene”. Non tacere per amore, ammonire, è vera carità e non farlo non è rispetto, ma indifferenza. La correzione certamente non è attraente, né per chi la esercita né per chi la subisce. E’ tale solo se esercitata e vissuta nell’amore! Aggiunge Papa Benedetto: “Il rimprovero cristiano, però, non è mai animato da spirito di condanna o recriminazione; è mosso sempre dall’amore e dalla misericordia e sgorga da vera sollecitudine per il bene del fratello. L’apostolo Paolo afferma: «Se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu» (Gal 6,1). Nel nostro mondo impregnato di individualismo, è necessario riscoprire l’importanza della correzione fraterna, per camminare insieme verso la santità. Persino «il giusto cade sette volte» (Pr 24,16), dice la Scrittura, e noi tutti siamo deboli e manchevoli (cfr 1Gv 1,8). E’ un grande servizio quindi aiutare e lasciarsi aiutare a leggere con verità se stessi, per migliorare la propria vita e camminare più rettamente nella via del Signore. C’è sempre bisogno di uno sguardo che ama e corregge, che conosce e riconosce, che discerne e perdona (cfr Lc 22,61), come ha fatto e fa Dio con ciascuno di noi”. Ammonire è gesto di carità e tutti ne abbiamo bisogno. E’ aiutare a comprendere le conseguenze delle mie scelte, che spesso non sa valutare o a cui non credo, deformato dall’illusione che posso sempre cambiare quando voglio io o che l’unico giudizio è il mio. Quante sofferenze si potrebbero evitare se sapessimo ammonire con vera carità! In alcuni casi l’ammonimento è evidente, condiviso, forte. Ad esempio, durante il suo viaggio a Agrigento, Giovanni Paolo II si rivolse così ai mafiosi: “Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!". Ed in tante occasioni ha ammonito con vigore coloro che si macchiavano di evidente e pubblico peccato. Così Papa Benedetto ha stigmatizzato, ad esempio, il carrierismo, l’uso privatistico della Chiesa, il dare scandalo ai piccoli. Questa chiarezza, però, deve aiutare tutti i cristiani ad ammonire con uguale forza i mafiosi o chi vive in situazione di evidente peccato e farlo sempre nella speranza di strapparli dalla complicità con il male. Gesù afferma che (Gv 15,2) “ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”. Il tralcio lasciato a se stesso diventa sterile, come accade facilmente con la presunzione, la facile convinzione di potere fare da soli, l’orgogliosa o rassegnata convinzione di fare abbastanza, di credersi padroni di se stessi e dei frutti. L’amore di colui che pota è speranza che i frutti possano essere più abbondanti, anche quando, come per la vite, tagliare sembra durezza, perdita, sacrificio inutile di quello che abbiamo se giudichiamo solo nel presente. Potare non è limitare il tralcio, quanto piuttosto aiutarlo a essere forte! Come per la vite: per tagliare dobbiamo desiderare dia tanti frutti e sapere vedere la primavera quando ancora siamo in inverno! Altrimenti la lasciamo com’è, si inselvatichisce, diventa sterile. Ammonire, quindi, non è affatto mancanza di rispetto o offesa all’individuo, come può suggerire una mentalità piena di paure, catturata dal presente, alla ricerca di un benessere immediato, debole nella speranza! Gesù ama la persona, da valore unico all’individuo, a cominciare da quei “senza volto”, cioè senza “io” che erano gli schiavi. Se amo qualcuno voglio sia protetto dal male! Egli stesso si fa schiavo per liberare dalla condanna peggiore, quella del non avere valore, del non esistere per l’altro, dal non essere e dal non avere prossimo. Gesù ama perché vuole che tutti abbiano un nome, un volto, siano una persona, un corpo, da amare, rispettare, anche quando è allontanato legalmente come il lebbroso, è considerato insignificante, come i bambini o le vedove, quando viene evitato perché un pericolo come un lebbroso o uno sconosciuto, come l’uomo mezzo morto che torna alla vita solo per la compassione del samaritano. Il Vangelo è proprio una storia di nomi, cioè di persone, che acquistano importanza, originalità, fisionomia, carattere, proprio perché amati e custoditi da Lui. E non diventano affatto uguali, ma, questo sì, legati l’uno all’altro, tanto da arrivare ad essere “un cuore solo e un’anima sola”. Se stessi, ma insieme; io e noi, singolarità e comunione, amore per se e amore per gli altri, aiuto reciproco. Così l’individuo è davvero se stesso! Se è amato! Gesù non si sostituisce affatto alla decisione della persona, non umilia la nostra volontà, anzi, questa è talmente e sempre decisiva, tanto da essere il suo vero limite all’amore. Lui resta alla porta e bussa finché noi non gli apriamo. Lui cerca una donna strappandola all’anonimato della folla e vuole riconoscere proprio lei perché il suo rapporto non è mai anonimo, impersonale e perché vuole regalarle quel bellissimo riconoscimento, realizzazione e piena consapevolezza dell’io: “la tua fede ti ha salvata”. Gesù non vuole che la gente lo segua per i miracoli che compie e in molti episodi sembra quasi sconsigliare la folla di venirgli dietro facilmente chiedendo a tutti di avere fame del pane che dura in eterno, perché non di solo pane vive l’uomo. Noi spesso, purtroppo, crediamo che l’individualismo sia la garanzia per la nostra persona, mentre è solo motivo di solitudine, che ci fa credere padroni di noi stessi quando ci trasforma banalmente in isole, vulnerabili, questo sì, al pensiero comune. Che però, siccome è comune, di tutti e non ha un volto, non è una persona concreta da amare ed a cui legarsi, appare, a noi che abbiamo paura di un amore vero e quindi personale, più rassicurante e facile! Gesù è molto diverso dai maestri del suo e di ogni tempo, che ammoniscono, stigmatizzano, condannano, giudicano con rigore e intransigenza, maestri che sanno riconoscere la pagliuzza e caricano sugli altri pesi insopportabili che loro stessi non vogliono sollevare nemmeno con un dito. Madelein Delbrel li descrive “gente che, sempre, parla di servirti con l’aria da capitano, di conoscerti con aria da professore, di raggiungerti con regole sportive, di amarti come ci si ama in un matrimonio invecchiato”. E quanti guasti creano cristiani così, tanto da rendere antipatico il bellissimo annuncio del Vangelo, da ridurlo a legge, facendo credere in diritto di guardare con antipatia e sufficienza il fratello, ammonendo senza amare. Essi certificano il peccato con le loro sentenze, ma non sanno e non vogliono aiutare a cambiare, non hanno interesse che questo avvenga! Non desiderano guadagnare un fratello (Mt 18,15), abbracciarlo perché è tornato in vita; non credono che la pecora smarrita posa essere ricondotta all’ovile, che un uomo vecchio diventi nuovo. Questa, è, invece, la speranza di Gesù. I farisei di ogni tempo e generazione amano la legge non l’uomo, perché questo scombina i nostri calcoli, chiede misericordia e non sacrifici, coinvolge nell’imprevedibile legame dell’amore e di un destino unico. Probabilmente sono essi stessi attraversati da dubbi, ma li nascondono come se il bianco del sepolcro potesse risolvere la morte o l’ipocrisia fosse una medicina. Il contrario della giustizia dei farisei, prigioniera del peccato e delle regole, non è, però, non dire niente, lasciare, ipocriticamente, ciascuno così com’è e in fondo solo! Gesù parla, e quindi, se necessario, ammonisce, perché ama. E’ curioso che ammonisce per lo più i giusti perché non sanno vedere il loro peccato, coloro che si credono a posto. Al contrario verso i peccatori ha parole di comprensione, di sostegno, di tenerezza, di speranza irragionevole secondo la legge, di amore ingenuo per il pessimismo cinico di chi crede di conoscere l’uomo! “Va e d’ora in poi non peccare più”, suggerisce alla donna adultera. Ammonimento e speranza. Non assiste con indifferenza al peccato, attento solo a esserne protetto lui! Non disprezza sentendosi buono, come quel fariseo che sale al tempio. L’Abbé Pierre diceva: “L’inferno é il momento di chiarezza, di luce piena in cui ognuno si vede così com’é fatto: in comunione o bastante a se stesso; in altre parole, amante degli altri o adorante di se stesso. Io! La mia carriera! Il mio successo! La mia fortuna! ‘Hai detto di bastare a te stesso? Soddisfati! Quella sarà la dannazione. L’inferno non é altro. E’ essere votati a guardarsi nello specchio così come si é per l’eternità”. Potremmo dire: l’inferno è conseguenza di un uomo che fugge da qualsiasi ammonizione, convinto così di essere se stesso, di affermare il suo valore perché nessuno gli può dire nulla e finisce per restare disperatamente così com’è! L’inferno è anche frutto dell’ipocrita indifferenza di non dire nulla. “Ogni volta che l’uomo nega la propria miseria e impotenza e pretende di bastare a se stesso, egli uccide l’amore perché ama se stesso. Con l’amicizia bisogna che finisca, che si spezzi, quest’aria di sufficienza, reale o apparente, che ognuno, nelle relazioni con gli altri, si sforza di mostrare per proteggersi. Non vi é possibilità di amicizia, come di amore autentico, se non là dove ci sia povertà di spirito secondo la formula evangelica, ovvero profonda “non sufficienza”, aggiungeva l’Abbé Pierre. Gesù ammonisce ma non umilia. Egli rivela alla donna samaritana “tutto quello che ha fatto”, ma sempre con speranza e misericordia, tanto da liberarla dalla sua dolorosa e difficile storia di tradimenti e solitudine. Gesù rivolge parole dure ai giusti nella speranza possano vedere e sentire. “Guai a voi” è l’estremo tentativo per rendere consapevole, chi, al contrario, diffida, si chiude, pensa che il male sia fuori di sé. “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché pulite l'esterno del bicchiere e del piatto, mentre dentro sono pieni di rapina e d'intemperanza” (Mt 23,25). “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché siete simili a sepolcri imbiancati, che appaiono belli di fuori, ma dentro sono pieni d'ossa di morti e d'ogni immondizia”. (Lc 6,24-26): “Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete. Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi, perché i padri loro facevano lo stesso con i falsi profeti”. Dovremmo prendere sul serio queste ammonizioni così chiare di Gesù e soprattutto comprenderle come l’estremo tentativo di farci rientrare in noi stessi e di metterci di fronte alle conseguenze delle nostre scelte. Non sono minacce, ma ammonimenti perché non piangiamo e restiamo senza nulla! E noi dobbiamo anche aiutarlo a toccare il cuore di chi si crede giusto perché ha le mani pulite anche se, come i sepolcri imbiancati, nasconde la morte dentro. I giusti si difendono, credono che il problema non siano loro ma Gesù. Eppure Gesù non si stanca di parlare loro proprio per liberarli dalla prigione della diffidenza, che li porta a credersi a posto perché occupano i primi posti, mentre sono lontani dalla gioia vera. Gesù ammonisce come un fratello, un padre, un vero amico e non come un maestro che assegna i compiti o esamina l’alunno! Ci vuole liberi dal male. Solo un amore forte e appassionato sa riconoscere il male ed è capace di sciogliere da questo. Gli uomini, invece, amano sentirsi e fare da maestri: ammoniscono senza misericordia, incutono paura per ottenere rispetto e obbedienza. Gesù parla perché ha misericordia, perché è più intimo a noi di noi stessi. Per lui nessuno è mai il suo peccato e spera, anche contro noi stessi, che possiamo essere diversi. Gesù libera dalla paura i peccatori e genera invece il timore, inizio dell’amore, via necessaria per cambiare e comprendere se stessi e la grazia. Quando l’ammonimento non nasce dall’amore e non lo trasmette è insopportabile, appare ingiusto, quasi un’offesa alla mia realizzazione! Gesù ammonisce anche Pietro, con parole dure, dirette, senza finti formalismi, con la libertà, appunto dell’amore. Pietro lo tentava ragionando, senza accorgersene, con la mentalità del mondo, quella per cui la vittoria è nella forza e non nella debolezza. (Mt 16,23) “Ma Gesù, voltatosi, disse a Pietro: «Vattene via da me, Satana! Tu mi sei di scandalo. Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini”. Parole forti, che devono aiutare lui e tutti noi a non ragionare secondo la legge del salvare se stessi, motivo dello scandalo della croce. Ammonisce Pietro anche quando, con sicurezza, dichiarava (Mc 14, 29) “Quand'anche tutti fossero scandalizzati, io però non lo sarò!”.”In verità ti dico che tu, oggi, in questa stessa notte, prima che il gallo abbia cantato due volte, mi rinnegherai tre volte”. Ammonisce il suo peccato e con questa sua parola gli regala l’inizio di una vita più umile, più vera, senza paura della propria debolezza. Il Vangelo ci mette in guardia perché non cerchiamo la felicità dove possiamo trovarla e per questo è pieno di ammonizioni. “Ma io vi dico”, afferma Gesù nel discorso della montagna, per rimarcare la differenza dalla giustizia dei farisei e dei pagani. Non basta più l’equilibrata e giusta regola dell’occhio per occhio, dente per dente, occorre amare il nostro nemico. Ammonisce a non cercare la nostra ricompensa, a non volere sapere e ricordare cosa faccia la destra e la sinistra per donare, solo per donare. Ammonisce tutti noi a non essere grandi come i capi di questo mondo, ma a esserlo facendoci grandi nel servizio gli uni degli altri, perché il più grande è colui che serve. Il peccato non è brutta figura, cosa che, invece, ci sembra imperdonabile, che temiamo e per la quali soffriamo tantissimo! Gesù vede nel profondo perché ama il cuore e vuole la gioia vera! Ed il peccato non è certo un problema formale, ma complicità con il male. Spesso il peccato appare “innocuo”: non genera immediatamente nessun giudizio negativo negli altri e nessun cambiamento del nostro ruolo. A volte, anzi, è peccato quello che può offrire importanza, ruolo, come il lusso, l’esteriorità, la forza, la furbizia, l’uso dell’altro per nutrire il proprio io. E’ facile non accorgersi delle conseguenze delle nostre scelte. Preferiamo interpretare il nostro peccato, farne oggetto di discussione, anche pubblica, come tanti aspetti della nostra vita, come fosse carattere, una manifestazione di come siamo fatti, qualcosa da capire, con un certo gusto di narcisismo così diffuso verso quello che ci appartiene. Qualcosa da capire e basta, perché il problema sono io ed il mio benessere personale. Ma all’anima, in realtà, questo non basta! Per paura dell’amore fuggiamo l’ammonimento su di noi! Invece capiamo il peccato proprio quando ci confrontiamo finalmente non più e non solo con noi stessi ma con un oltre, ci mettiamo di fronte a Dio, al suo giudizio. Solo specchiarci in lui ci fa capire davvero chi siamo, anche nel nostro peccato, perché illumina anche le parti più buie della nostra anima, ma sempre con una luce che è amore, luce della quale non dobbiamo avere paura! Certo, sappiamo quanto sia facile sentirsi “ a posto”, assecondare la suadente voce del nostro orgoglio, l’istintiva difesa del nostro io, intenerirsi per le nostre difficoltà, sentirsi vittime. In realtà è un uomo che soffre, proprio perché si giudica da solo! E’ facile non permettere agli altri di ammonire, anticipando con l’aggressività, difendendosi con le giustificazioni, chiudendosi nel silenzio. In realtà non soltanto non dobbiamo subire ma cercare l’aiuto fraterno con docilità, riconoscendolo così necessario per cambiare. Il Cardinale Daneels con acutezza scriveva: “Spesso, per i nostri contemporanei, libertà vuol dire unicamente essere libero da, essere liberato da tutti i legami che paralizzano. Ma a che serve essere liberi da se non si sa per che cosa uno é libero? Senza un progetto di vita che abbia senso, che entusiasmi, la libertà é forse qualcos’altro di un vicolo cieco? Quanto alla bellezza essa non libera più , piegata com’é al narcisismo. Gli uomini cercano un Dio. Ma questo Dio deve parlare. Ma, si sente dire ancora, c’é davvero posto per due? C’é posto per Dio e per me? Se lui esiste, non sono uno schiavo? Se regna, che ne é della mia libertà? Strano, un diamante non andrà mai a chiedere al sole: “Smetti di brillare! Tu mi schiacci!”. Non dirà piuttosto: illuminami, perché più vivi sono i tuoi raggi, più io scintillo e più posso essere diamante! Proprio perché tu ci sei, io sono pienamente me stesso”. In realtà è proprio la paura dell’amore che ci fa scappare da ciò di cui abbiamo più bisogno. La vera fraternità è in fondo la causa e anche il frutto dell’ammonimento. Il peccato, infatti, è ciò che ci divide dall’altro, che ci fa vivere per noi stessi, che ci deforma con l’orgoglio di bastare a noi stessi. "E' il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…". (Antoine de Saint-Exupéry). E tutti noi, in realtà, abbiamo bisogno di un padre, un fratello, una madre, una sorella che ci addomestica con il suo amore e non ci vergogniamo di farlo nel comandamento reciproco dell’amore. Dio giudica, perché non é indifferente! L’ammonimento si motiva con questo giudizio, cui tengo e, che mi aiuta a fermarmi e cambiare. Noi crediamo poco al giudizio di Dio, deformati come siamo dalal convinzione che io sono il solo che può giudicare me stesso! Cassiano, monaco saggio che insegnava ad uomini rozzi a volersi bene e a vivere assieme scriveva: «Se qualcuno, per aver commesso una qualsiasi colpa viene sospeso dalla preghiera, nessuno abbia il permesso di pregare con lui prima che, prostratosi egli a terra per penitenza, l'abate non conceda il perdono a lui che supplica davanti a tutti i fratelli. Colui, infatti, che avrà la presunzione di unirsi a lui nella preghiera o in una conversazione prima che egli sia riaccolto da chi presiede, riceva un'analoga punizione, poiché si è consegnato volontariamente a Satana, al quale l'altro, secondo le parole dell’Apostolo, era stato destinato in vista della correzione del suo peccato. Chi si unisce a lui pecca molto gravemente, poiché offrendogli consolazione fa sì che il suo cuore si indurisca ancora di più, e non permette che quegli rifletta sulla sua conversione e sulla necessità di chiedere perdono per ciò per cui è stato escluso dalla preghiera; anzi, comportandosi così egli alimenta l’eccitazione dell’orgoglio e l’ostinazione del peccatore, inducendolo a una condizione ancora peggiore”. Quanto è vero che il buonismo non è affatto bontà e che assecondare non è amare, ma illudere e lasciare soli con se stessi. Ammonire i peccatori è possibile, però, solo se liberiamo il nostro cuore dal peccato. Il consiglio di togliere la trave nel proprio occhio non è soltanto per smettere di giudicare gli altri ed iniziare finalmente a guardare se stessi, ma anche perché possiamo vedere il prossimo, riconoscere il fratello, la sorella e non la pagliuzza! Invita Sant’Agostino (Discorso 387) “Dovremmo dunque tacere e non muovere rimproveri a nessuno? No, dobbiamo senza dubbio rimproverare, ma prima rimproverare noi stessi. Volete rimproverare il vostro prossimo? Perché cercare chi è lontano? Il prossimo che vi è più vicino, che avete davanti a voi, siete voi stessi. Se uno non ama se stesso, non può amare neanche il suo prossimo. La regola dell'amore del prossimo la ricevete da voi stessi. Se uno mi dice che ama il suo prossimo, io gli rispondo di amare prima se stesso e di rivolgere a sé i rimproveri”. Si ammonisce non per una perfezione astratta, ma per liberare dal male! La perfezione di Gesù è molto diversa da quella, davvero disumana, dei farisei! Per Gesù la perfezione non è un modello senza errori, come delle mani pure ma non sporche della vita. La perfezione è l’amore e quindi la misericordia! Perfetto non è chi si crede senza peccato, qualcuno cui non si può dire niente, chi non ha sbagliato ma nemmeno amato, ma è il pubblicano e la prostituta che passano avanti ai giusti nel Regno dei cieli. Essi hanno sbagliato tanto, ma sono perfetti perché hanno pianto e si sono abbandonati come bambini, senza nessun merito, ad un amore tanto più grande di loro. Perfetto è chi ha visto un uomo affamato e gli ha semplicemente dato da mangiare. Senza ricompense. Solo per amore. Che tristezza uomini (ed anche comunità, come ha ricordato papa Francesco) cui non si può dire nulla, piene di difese e di paure, chiuse, lontane dalla vita, senza “incidenti” ma anche senza prossimo! Giobbe esclama: (Gb 5,17): “Felice l'uomo, che è corretto da Dio”. Felice non è chi può fare da solo, ma chi si lascia amare! L’autore della Lettera agli Ebrei aggiunge: (Eb 12,11): “Certo, ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati”. Gesù ammonisce perché ama e perché vuole che la (Gv 15,11) la sua gioia sia in noi e la nostra gioia sia piena. Dobbiamo anche ricordarci il limite stesso del nostro ammonire. Non dipende tutto da noi (qualche volta per poca fede, per troppa convinzione su noi stessi e sulle nostre opere finiamo per crederlo e diventiamo, così, farisei!). Noi seminiamo amore, aiutiamo a comprendere, cerchiamo di aiutarci reciprocamente, ma sempre affidandoci alla grazia del Signore, unico maestro e vero seminatore di amore nel cuore degli uomini. Sant’Agostino afferma: “L'uomo, dunque, corregga con misericordia ciò che può; ciò che invece non può correggere, lo sopporti con pazienza, e pianga e gema con amore”. Sempre Sant’Agostino a proposito della correzione riprende il famoso ama e fa ciò che vuoi: (Discorso 163/B): “Fratelli, qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi, gli spirituali, correggetelo in questa maniera, con mitezza. Sia che incoraggi, che ti mostri paterno, che rimproveri, che sia severo, ama e, tutto ciò che vuoi, fallo pure. Il padre infatti non odia il figlio, eppure il padre, se è necessario, percuote il figlio, apporta dolore per proteggerne la salute. Questo vuol dire quindi: con mitezza. Se infatti uno venga sorpreso in qualche colpa e dirai: Non mi riguarda; ed io ti dirò: Per quale ragione non ti riguarda? Se avrai trascurato la piaga di lui, renderai un conto negativo del peccato della tua negligenza”. Ammonisce, allora, non un distaccato maestro o un freddo giudice ma un padre e un fratello! Non è vero che ammonisce chi non ha interesse per l’altro! Anzi! Quante ammonizioni non dette hanno lasciato solo il fratello e non lo hanno aiutato a rendersi conto! Ascoltiamo sempre Sant’Agostino: (Discorso 387) “Sta scritto: Chi disprezza la correzione è infelice. Si può rettamente aggiungere a questa massima: come chi disprezza la correzione è infelice, così chi ricusa di dare la correzione è crudele. Chi ferisce è misericordioso, chi risparmia è crudele. Vi pongo un esempio dinanzi agli occhi. Il padre anche quando ferisce ama. E non vuole che il figlio perisca. Non bada al suo sentimento paterno, pensa a ciò che è utile al figlio. Perché? Perché è padre, perché prepara l'erede, perché educa il suo successore. Ecco: colpendo, il padre si mostra buono, colpendo si mostra misericordioso. Se il figlio, che è inesperto e non viene corretto, vive in maniera da perire, e se il padre fa finta di niente, se il padre lascia correre, se il padre teme di urtare il figlio traviato con la severità della correzione, risparmiandolo non si mostra crudele? IL problema, allora, non è chi sono io per dire qualcosa all’altro, ma prendersi la responsabilità e la libertà dell’amore. E anche accettarla per sé! Solo l’amore ci libera dalla paura e ci fa trovare le parole che possono toccare il cuore. San Francesco nella sua regola (Capitolo V) invitava ogni frate e custodire se stesso ma anche il fratello. “Nessun frate faccia del male o dica del male a un altro anzi per carità di spirito volentieri si servano e si obbediscano vicendevolmente. E questa è la vera e santa obbedienza del Signore nostro Gesù Cristo” Il suo amore esigente aiutava i frati ad essere migliori, diversi. “382 Non era solito blandire i vizi, ma sferzarli con fermezza; non cercava scuse per la vita dei peccatori, ma li percuoteva con aspri rimproveri, dal momento che aveva piegato prima di tutto se stesso a fare ciò che inculcava agli altri. Non temendo quindi d'esser trovato incoerente, predicava la verità con franchezza”. Francesco ammonisce perché vive quello che chiede agli altri e sa che lui stessa ha bisogno di essere ammonito. Ammoniva e si lasciava ammonire perché fratello e padre. “142 Non soltanto con i maggiori di lui si mostrava umile il servo di Dio, ma anche con i pari e gli inferiori, più disposto ad essere ammonito e corretto, che ad ammonire gli altri. Un giorno, montato su un asinello, perché debole e infermo non poteva andare a piedi, attraversava il campo di un contadino, che stava lavorando. Questi gli corse incontro e gli chiese premuroso se fosse frate Francesco. Avendogli risposto umilmente che era proprio lui quello che cercava: «Guarda --disse il contadino -- di essere tanto buono quanto tutti dicono che tu sia, perché molti hanno fiducia in te. Per questo ti esorto a non comportarti mai diversamente da quanto si spera ». Francesco, a queste parole, scese dall'asino e, prostratosi, davanti al contadino, più volte gli baciò i piedi umilmente ringraziandolo che si era degnato di ammonirlo”. Del resto egli soleva dire: (763) che è dovere del superiore, padre e non tiranno, prevenire l'occasione della colpa e non permettere che cada chi poi difficilmente potrebbe rialzarsi, una volta caduto”. Questo è il senso vero dell’ammonire il peccatore. E quando non lo facciamo che amara soddisfazione, purtroppo, nel vedere il fratello cadere, magari per giudicarlo o per sentirsi migliori! Francesco, che era geniale nella carità, ci ricorda che ammonire non avviene soltanto con le parole, ma anche e soprattutto con la nostra vita e con l’esempio. (1703) “Un ministro dei frati si era recato da Francesco, per celebrare con lui la solennità del Natale, nel luogo di Rieti. E i frati, per festeggiare il ministro e la ricorrenza, prepararono le mense in maniera alquanto distinta e ricercata il giorno di Natale, stendendo belle tovaglie con vasellame di vetro. Scendendo Francesco dalla cella per desinare, vide che erano state poste mense più elevate e preparate con cura. Tosto si allontanò nascostamente, prese il bastone e il cappello di un povero venuto colà quel giorno e, chiamato sottovoce uno dei suoi compagni, uscì fuori dalla porta del luogo, a insaputa dei frati. Il compagno restò dentro, vicino alla porta. Intanto i frati entrarono alla mensa, poiché Francesco aveva ordinato che non lo aspettassero, quando non fosse giunto all'ora della refezione. Rimasto fuori un po' di tempo, bussò alla porta e il suo compagno tosto gli aprì; il Santo, avanzando col cappello sul dorso e il bastone in mano, andò all'uscio della stanza in cui i frati desinavano. E come un pellegrino e povero implorava: «Per amore del Signore Dio, fate l'elemosina a questo pellegrino povero e malato! ». Il ministro e gli altri lo riconobbero subito. Il ministro gli rispose: « Anche noi siamo poveri, fratello, e poiché siamo in molti le elemosine che abbiamo sono sufficienti al nostro bisogno. Ma per amore di quel Dio, che hai nominato, entra nella stanza e divideremo con te le elemosine donateci da Dio ». Entrò Francesco e si fermò in piedi davanti alla tavola dei frati; il ministro gli diede la scodella in cui mangiava e del pane. Egli li prese umilmente, sedette vicino al fuoco, di fronte ai fratelli seduti a tavola, e sospirando disse loro: “Vedendo una mensa apprestata con tanta eleganza e ricercatezza, ho pensato che non fosse la tavola di religiosi poveri che ogni giorno vanno a carità di porta in porta. A noi, miei cari, si addice seguire l'esempio della umiltà e povertà di Cristo più che agli altri religiosi, poiché a questo siamo chiamati e questo abbiamo promesso davanti a Dio e agli uomini. Adesso sì mi sembra di star seduto come si conviene a un frate minore, poiché le solennità del Signore sono più onorate con l'indigenza e la povertà, per mezzo della quale i santi si guadagnarono il cielo, anziché con la raffinatezza e la ricerca del superfluo, a causa delle quali l'anima si allontana dal cielo”. Di ciò arrossirono i fratelli, considerando ch'egli parlava la purissima verità. E alcuni cominciarono a piangere forte, vedendo Francesco seduto per terra, e come puramente e santamente aveva voluto correggerli e ammaestrarli. Ammoniva invero i frati ad avere mense basse e semplici, in modo che i secolari ne traessero edificazione, e se qualche povero sopraggiungesse invitato dai frati, potesse sedersi alla pari e vicino a loro, non il povero per terra e i frati più in alto”. Ecco, tutti piansero e capirono. È il frutto dell’ammonizione. Ritrovare la pienezza della fraternità, senza paure, senza vergogne. Sì, davvero è felice colui cui è rimessa la colpa. Non c’è gioia da soli e non ci si salva da soli. Triste l’uomo cui non si può dire nulla! Non abbiamo paura di ammonire e di farci ammonire, per trovare la gioia vera che il peccato ruba e nasconde. Sempre con la libertà dell’amore. Anche nell’ammonire i peccatori “ama e fa’ ciò che vuoi”. “Qualunque parola offensiva pronunciata contro i poveri lo feriva al cuore, e non poteva soffrire che qualcuno insultasse o maledicesse qualunque creatura di Dio. Un giorno udì un frate fare una insinuazione ad un poveretto che supplicava l'elemosina: «Non vorrei che tu fossi ricco e ti fingessi bisognoso!». Come l'udì il padre dei poveri, san Francesco, rimproverò molto duramente il frate che aveva pronunciato quelle parole, e gli ordinò di spogliarsi davanti al mendicante e di chiedergli perdono, baciandogli i piedi. Era solito dire: «Chi tratta male un povero fa ingiuria a Cristo, di cui quello porta la nobile divisa, e che per noi si fece povero in questo mondo»(2Cor 8,9). Spesso perciò, incontrando qualche povero con carichi di legna o altri pesi, prendeva sulle sue spalle quei pesi, sebbene fosse assai debole”.​​​​​​​​
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