domenica 4 settembre 2016
Cultura, fronte unito per lo Yemen
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Il piccolo e prezioso padiglione dedicato allo Yemen, all’attuale Biennale di Architettura di Venezia, ha battuto i colossi miliardari del Golfo e anche il “New York Times” lo ha incoronato come uno tra i padiglioni da non perdere. Eppure, in questo piccolo spazio, non ci sono luccichii faraonici ma una riproduzione in legno fedele alle complesse architetture tradizionali e una serie di video sull’artigianato locale e, soprattutto, sulla crisi gravissima che attraversa il patrimonio culturale yemenita a causa del conflitto tra il governo centrale, sostenuto dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati, e i ribelli houti.Infatti, solo la Coalizione dei Paesi del Golfo (GCC) ha distrutto in questa guerra 52 siti archeologici tra cui la grotta Assad al-Kamal nella provincia di Ibb, la cittadella detta del “Cairo” a Taiz, il tempio di Awam, il Tempio del Sole, il tempio di Bran, la tomba di Baraqish, la Grande Diga del Marib e le mura storiche della città di Sada. Il sottosegretario dell’Autorità generale per il mantenimento dei siti storici in Yemen, Amt al-Razaq Jhaf, fa la conta del disastro durante un anno e un mese di guerra tra i ribelli del Nord e il governo centrale che ha richiesto l’aiuto dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati. Il danno è tale che – per un Paese che ha soltanto nell’ex capitale Sanaa 6mila abitazioni storiche risalenti al IX secolo a.C. e protette dall’Unesco, oltre a collezioni di antichità che arrivano fino a tremila anni fa – una vasta comunità di archeologi, storici dell’arte nel mondo e istituzioni per la protezione del patrimonio mondiale dell’umanità, si sono sentiti in dovere di provvedere alla sua salvaguardia, istituendo lo scorso aprile la settimana “Musei uniti per lo Yemen” a cui ha fatto seguito l’iniziativa della Biennale di Venezia che è stata solo un anticipo di una serie di incontri previsti in Italia e organizzati dall’Istituto veneto per i Beni culturali, il primo domani a Torino e gli altri a fine ottobre a Venezia. L’Istituto dal 2005 è impegnato nel restauro della Grande Moschea di Sanaa e ha momentaneamente abbandonato il progetto a causa della guerra. «Confidiamo di rientrare al più presto, dopo il cessate il fuoco e appena ci saranno riattivati i rapporti diplomatici», fa sapere il direttore Renzo Ravagnan. Ravagnan sa bene che la protezione del patrimonio archeologico passa per le popolazioni locali: «Nonostante la sofferenza di questi mesi, la nostra più grande soddisfazione è sapere dal nostro ingegnere Mohammad, responsabile dei lavori sul posto, che molte delle nostre maestranze locali hanno sentito il bisogno di proseguire il lavoro da sole, da dove avevamo lasciato, sia per i lavori di completamento che per i lavori di stucco. Questa vicenda la dice lunga sul fatto che, quando la cultura di conservazione diventa una necessità per la popolazione locale, allora si hanno molte speranze sul rispetto e sulla protezione dei siti». L’Istituto anticipa la proposta che verrà lanciata ad ottobre a Venezia. «Sarà una proposta di aiuto alla città di Sanaa che gireremo a Unesco con un piano di recupero di tutte le abitazioni civili della città vecchia in tre punti: valorizzazione delle tecniche di restauro locali e tradizionali; mantenimento dei centri storici vivi, abitati e pulsanti; sostegno economico alla manodopera locale». Il tema della ricostruzione sarà certamente centrale appena la guerra sarà conclusa e sarà anche materia di business internazionale. Il professore Daniel Varisco, tra gli organizzatori delle iniziative internazionali dello scorso aprile, è docente di Scienze sociali alla Qatar University. Si indigna per gli effetti del conflitto: «In un anno di guerra abbiamo assistito a una devastazione senza precedenti. Quel che deve preoccuparci di più, come in Siria, sono le perdite di vite umane e come fornire il primo soccorso verso chi è ancora in vita ma è intrappolato in una situazione drammatica. Posto questo, la nostra azione, concentrata sulla materia che ci sta a cuore, può avere il pregio sia di fare conoscere le bellezze dello Yemen che di sensibilizzare sulla natura eccezionalmente grave di questo conflitto». I media ne hanno parlato poco, a confronto con quanto accaduto in Siria, ma il sottosegretario Unesco Jhaf accusa l’Arabia Saudita e i suoi alleati di avere violato la convenzione dell’Aja, che raccomanda la protezione delle proprietà culturali durante i conflitti armati. «Il sistema dei media è attirato dalla narrazione di Daesh e delle sue gesta – sottolinea Varisco – pur avendo dimenticato che in Yemen si è scatenato, nella provincia di Hadramauth, contro la cittadella di Shibam. La struttura del XVI secolo, soprannominata “la Manhattan del deserto”, è stata sfigurata con un’esplosione mirata. Ciò accade anche perché molti media panarabi e occidentali compiacciono il GCC e i suoi alleati e minimizzano gli effetti di questi bombardamenti; un’altra delle ragioni è il fatto che lo Yemen è stato sempre percepito come un Paese defilato. Di fatto è poco conosciuto dal grande pubblico ma è assolutamente centrale e strategico per la comprensione degli equilibri di potenza in Medio Oriente».Il direttore generale dell’Unesco Irina Bokova che ha sostenuto la settimana Musei uniti per lo Yemen, ha dato la sua benedizione anche all’iniziativa veneziana: «Quando la cultura viene attaccata abbiamo il dovere di reagire in sua difesa e rispondere con ancora più cultura e conoscenza per innalzare la comprensione comune di tutta l’umanità verso questi lasciti storici che ci riguardano, nessuno escluso». Del resto, spiega Varisco, «ciò che accade in Yemen, il Paese più povero del Medio Oriente, deve interessarci: a questo mondo non esistono più giardini chiusi ». Per questo l’Unesco ha attivato la campagna #Unite4Heritage (di cui la settimana yemenita e le iniziative della Biennale sono due costole), invitando archeologi, restauratori, artisti locali e semplici cittadini per sviluppare e diffondere una cultura attiva della conservazione e prevenire o contrastare disastri, attacchi, frodi e traffici illeciti. Il grimaldello su cui fare leva, dice Bokova, «è far capire al pubblico che non si tratta di proteggere pietre ma preservare la stessa umanità». Negli incontri di ottobre a Venezia ci sarà anche l’intento di dare voce a chi ha documentato il traffico illegale di manu-fatti preziosissimi dallo Yemen, in genere diretti verso collezionisti privati risiedenti negli stessi Paesi che hanno iniziato la guerra oppure che l’hanno finanziata con le armi. Alexander Nagel, ricercatore della Smithsonian Institution di Washington traccia da anni il mercato nero e rivela: «Da quando è iniziata la guerra il mercato di numismatica su eBay è molto fiorente e molti pezzi di monete antiche sono facili da comprare. Stessa cosa dicasi per i rotoli della Torah degli ebrei yemeniti, molto ricercati e ambìti ». Il caso più eclatante che Nagel ha documentato rimane quello della testa di alabastro sottratta al Museo dello Yemen del Sud ad Aden, durante la guerra civile del 1994, finita del 2003 alla galleria Sotheby’s e messa all’asta dai fratelli Ali e Hicham Aboutaam, mercanti libanesi con cittadinanza canadese e proprietari di una serie di gallerie a Ginevra e New York, per un prezzo tra i 20 e i 30mila dollari. «Il mercato – rivela Nagel – ha i suoi punti di forza nei Paesi ricchi della Penisola Araba, in Turchia e in Israele. Una sorta di triangolo dell’illecito che si serve delle aste internazionali per darsi una parvenza di legalità e che gli Stati Uniti e l’Europa desiderano contrastare fortemente».
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