martedì 8 aprile 2014
COMMENTA E CONDIVIDI

​Sono sempre stato interessato alla questione del Gesù storico perché la ritengo una dimensione ineludibile del tema centrale della teologia e della stessa fede cristiana, che è Dio e la sua autorivelazione che trova la sua pienezza e il suo compimento in Gesù Cristo. È questo il punto di vista a partire dal quale esaminerò gli atti del Simposio sui Vangeli, storia e cristologia, in rapporto al Gesù di Nazaret di Benedetto XVI. In concreto mi limiterò a considerare due contributi: principalmente quello di John Meier sulla figura storica di Gesù e sulla valutazione storica delle sue parabole (vol. I, pp. 237-260). Secondariamente il contributo di Tobias Nicklas sulla storia di Gesù nel Vangelo di Marco (vol. II, pp. 37-61).La trattazione di Meier sulle parabole e specialmente su quella del buon Samaritano è senza dubbio molto interessante, ma a me interessa ancor più il grande riconoscimento che Meier dà al Gesù di Nazaret di Benedetto XVI, affermando che ha aiutato a produrre uno sviluppo non solo nella teologia ma anche nella dottrina, nel senso che queste parole hanno in John Henry Newman. Infatti da quando, con Ed Parish Sanders e la «terza questione», l’indagine su Gesù è diventata veramente storica e non cripto-teologica, si è creato un concreto terreno di lavoro a cui gli studiosi cattolici possono prendere parte senza riserve o timori. In questo nuovo contesto accademico Benedetto XVI ha spiegato, all’inizio del primo volume del Gesù di Nazaret, come comprendere l’interrelazione tra l’«indispensabile» metodo storico-critico e l’ermeneutica cristologica che permette al credente di entrare in un rapporto vivente, personale e comunitario, con il Gesù Cristo reale.Poi, all’inizio del secondo volume, Benedetto XVI ha fatto un’osservazione assai significativa: egli non ha inteso scrivere una Vita di Gesù, cioè un’opera esplicitamente dedicata alla questione del Gesù storico con i suoi intricati problemi di cronologia e topografia (per questo rimanda ai lavori di Joachim Gnilka e dello stesso Meier), bensì quella che, con un po’ di esagerazione, si potrebbe chiamare una «cristologia dal basso», impegnata in un’ermeneutica della fede. Meier colloca proprio in questa osservazione il grande contributo di Benedetto XVI, che fa una chiara distinzione tra una legittima indagine storico-critica su Gesù di Nazaret, che rimane dentro i suoi limiti, e un’indagine che va al di là di ciò, riprendendo i risultati dell’indagine storico-critica all’interno di una più ampia visione di fede e specificamente in una cristologia contemporanea ma in vivente continuità con la tradizione.Nonostante questa penetrante e ben articolata valutazione positiva, personalmente ritengo che tra Meier e Ratzinger permanga una diversità, limitata e tuttavia profonda. Per Ratzinger, a proposito della conoscenza storica di Gesù ci troviamo in una situazione drammatica per la fede, nella quale il suo autentico punto di riferimento, l’amicizia con Gesù, minaccia di annaspare nel vuoto. Da una parte, infatti, il metodo storico è irrinunciabile, perché per la fede biblica è fondamentale il riferimento a eventi storici reali: se esso viene meno «la fede cristiana come tale viene eliminata e trasformata in un’altra religione». Dall’altra parte vanno riconosciuti i limiti dello stesso metodo storico-critico, tra i quali il fatto che esso non può oltrepassare l’ambito delle ipotesi, sia pure con un alto grado di probabilità: nell’insieme dobbiamo cioè essere consapevoli del limite delle nostre certezze, come è confermato dalla storia dell’esegesi moderna. Perciò questo metodo, per la sua stessa natura, «rimanda a qualcosa che lo supera e porta in sé un’intrinseca apertura verso metodi complementari».

 

Qui Ratzinger inserisce il suo apprezzamento per l’«esegesi canonica» e fa un’ulteriore precisazione: l’ermeneutica cristologica presuppone una scelta di fede e non può derivare dal puro metodo storico. Ma questa scelta di fede «ha dalla sua la ragione – una ragione storica». Ratzinger aggiunge che queste indicazioni metodologiche determinano la strada della sua interpretazione della figura di Gesù nel Nuovo Testamento: ciò significa anzitutto che «io ho fiducia nei Vangeli» e «ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale… il "Gesù storico" in senso vero e proprio», nella convinzione che questa figura sia molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni tentate negli ultimi decenni; sia cioè «una figura storicamente sensata e convincente». In concreto, ciò che è accaduto negli anni dopo la morte di Gesù si può spiegare non per l’azione di formazioni comunitarie anonime, ma solo se la grandezza si colloca all’inizio, in quanto la figura di Gesù ha fatto saltare tutte le categorie disponibili e ha potuto essere compresa soltanto a partire dal mistero di Dio.Ratzinger esprime il parere che in 200 anni di lavoro esegetico l’interpretazione storico-critica abbia ormai dato ciò che di essenziale aveva da dare: se non vuole esaurirsi in sempre nuove ipotesi diventando teologicamente insignificante, deve fare un passo metodologicamente nuovo e riconoscersi nuovamente come disciplina teologica, senza rinunciare al suo carattere storico. Deve riconoscere cioè che l’ermeneutica positivistica da cui essa prende le mosse non è espressione della sola ragione valida e definitiva, ma costituisce una determinata specie di ragionevolezza storicamente condizionata, capace di correzione e di integrazioni e bisognosa di esse. L’esegesi storico-critica deve quindi riconoscere che «un’ermeneutica della fede, sviluppata in modo giusto, è conforme al testo e può congiungersi con un’ermeneutica storica consapevole dei propri limiti per formare un’interezza metodologica». Ratzinger colloca proprio qui il senso e lo scopo del tentativo che ha compiuto con il Gesù di Nazaret.
Ritorniamo ora al contributo di Meier per individuare, in mezzo ai molti elementi di convergenza, il punto centrale della divergenza da Ratzinger. Entrambi distinguono chiaramente l’indagine storico-critica su Gesù e l’ermeneutica cristologica ed entrambi affermano al tempo stesso un rapporto positivo tra di esse. Per Meier questo rapporto può riguardare, ad esempio, il contributo del metodo storico a una comprensione cattolica della Bibbia come processo storico-salvifico, favorendo in tal modo una recezione moderna e critica del sensus plenior, e può far cogliere meglio la teologia e la spiritualità di Luca, contribuendo così all’ermeneutica cristologica. Questo rapporto non è mai inteso però come un’apertura intrinseca del metodo storico-critico che si congiunga all’ermeneutica della fede così da formare con essa «un’interezza metodologica» in grado di schiudere i testi dei Vangeli e di cogliere una figura di Gesù anche storicamente più convincente. Sta qui, a mio parere, il vero punto di divergenza tra Meier e Ratzinger. Sembrano confermarlo le parole di Meier secondo le quali l’indagine storica solo dopo aver completato il suo lavoro può contribuire alla cristologia.Allargando lo sguardo agli sviluppi più recenti della ricerca sul Gesù storico, è assai significativo che si stia verificando una svolta nella «terza ricerca», svolta il cui iniziatore e maggiore protagonista sembra essere James Dunn, al quale vanno aggiunti Richard Bauckham, Dale Allison ed Ernst Baasland. Questa svolta mette l’accento sull’affidabilità della tradizione orale, che risale per gli aspetti decisivi a Gesù stesso, piuttosto che sull’analisi letteraria dei testi e sull’applicazione dei criteri di storicità alle singole pericopi. Sembra essere pertanto più vicina all’approccio metodologico e teologico di Joseph Ratzinger di quel che lo siano i lavori di studiosi come Meier. Inoltre, anche uno degli aspetti più discussi del Gesù di Nazaret, il grande peso dato al Vangelo di Giovanni nel ricostruire la figura storica di Gesù, trova significative corrispondenze nei più recenti sviluppi della ricerca.
 
Veniamo ora al contributo di Tobias Nicklas sulla «storia di Gesù» di Marco come una storia riguardo a Dio. La sua tesi è che i Vangeli, come anche gli Atti degli Apostoli e l’Apocalisse, non siano trattati sistematici ma storie, che intendono mettere i loro lettori a confronto con la verità vivente del Dio di Israele, del suo Figlio Gesù di Nazaret, del suo Spirito e del suo popolo, coinvolgendo i lettori stessi e rendendoli parte di queste storie. In dialogo con Nicholas T. Wright, Nicklas ritiene che i Vangeli possano essere letti sia come «storie di Dio riguardo a Gesù» sia come «storie di Gesù riguardo a Dio», ma dedica il suo contributo a questa seconda prospettiva. Nella conclusione aggiunge che questo modo di leggere Marco getta comunque luce anche sulla cristologia del medesimo evangelista, rendendo chiaro come prepari la posteriore cristologia di Giovanni.Al di là delle differenze nelle metodologie esegetiche, la tesi di Nicklas mostra una profonda corrispondenza con ciò che sta soprattutto a cuore a Ratzinger nel suo Gesù di Nazaret, come in tutta la sua teologia: rendere Dio presente in questo mondo e aprire agli uomini del nostro tempo l’accesso a lui. Termino con una considerazione più generale sulla questione del Gesù storico in rapporto all’autorivelazione di Dio in Gesù Cristo e alla sua credibilità. In estrema sintesi, questo rapporto implica il seguente problema: da una parte un’indagine su Gesù puramente razionale, storico-critica, difficilmente arriva a certezze, soprattutto quando si tratta di individuare in lui il supremo e definitivo rivelatore di Dio. Dall’altra parte l’indagine razionale è necessaria perché la decisione di credere nel Dio di Gesù Cristo possa essere una scelta degna dell’uomo come essere ragionevole e non decadere nell’assurdità o nel fanatismo.
Come afferma Ratzinger in Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, non sono quindi praticabili né la via percorsa dalla neoscolastica di ricostruire i praeambula fidei con una ragione rigorosamente indipendente dalla fede, né la via di Karl Barth di qualificare la fede come un puro paradosso, che può sussistere solo in totale indipendenza dalla ragione. Si tratta piuttosto di superare la presunta estraneità tra la ragione e la fede: quest’ultima può contribuire a risanare la ragione, non snaturandola ma aiutandola a ritrovare pienamente se stessa (oggi, in concreto, aiutandola a liberarsi dai suoi condizionamenti positivistici); a sua volta la ragione è un’esigenza interna della fede stessa, che rende autenticamente umano questo gratuito dono di Dio.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: