martedì 5 gennaio 2016
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«L’esistenza dell’uomo nella società politica è un’esistenza storica: perciò, una teoria della politica che voglia affrontare anche le questioni di principio, dev’essere, nello stesso tempo, una teoria della storia». Per le parole impiegate, per la loro ripetuta cadenza, l’incipit con cui Eric Voegelin introduceva alla scoperta della particolare metodologia e delle tesi folgoranti di The new science of politics assomiglia molto di più a una statuizione, perfettamente scolpita dopo un accurato lavoro di cesello, che non alle accademiche espressioni di accompagnamento del lettore verso quella che un autore considera la «posizione » del problema fondamentale della sua opera.  Da solo basterebbe, quest’esordio del libro pubblicato nel 1952, a far apprezzare la vertiginosa distanza che separa gli orientamenti della political science, dominanti allora ed egemoni ancora di più nei decenni successivi, dalla solitaria impresa della «nuova scienza della politica», a cui Voegelin ha atteso con passione mai sopita e combattiva coerenza lungo gran parte della sua vita di ricercatore in campi fondamentali per l’azione e la conoscenza umana. Dei lineamenti di una scienza nuova della politica (di quelli già visibili con esattezza, non meno che degli aspetti ancora da scoprire e fra loro congiungere con audace intelligenza), Il mondo della polis, pubblicato per la prima volta nel 1957, è la rappresentazione completa, oltre che la più suggestiva. E, se la si accosta alle affaticate indagini che affollano questi nostri anni, è quasi certamente, per ogni studioso, la più rincuorante. Ce ne accorgiamo con facilità non appena, girata l’ultima pagina di quest’opera, il suo metodo di analisi e i principali risultati vengano soppesati e valutati rispetto agli svolgimenti e agli effettivi avanzamenti di ciò che nel Novecento si è imparato a conoscere a proposito del «politico», dei suoi fenomeni e dei suoi processi, delle sue regolarità o invece variazioni temporanee, così come dei naturali cambiamenti e delle persistenti tendenze che regolano il ciclo vitale di ogni sistema in cui stabilmente si organizzano le collettività politiche [...]. Il mondo della polis, nelle tre parti che lo articolano [...], è la dimostrazione filosofica e storica di quanto sia rilevante la misconosciuta o sottovalutata importanza del leap in being, del «salto nell’essere». Evento genuinamente epocale, che frantuma l’originaria compattezza del mito cosmologico, un tale «salto nell’essere» pone l’ordine dell’uomo direttamente sotto Dio. E ci impone di prendere atto che il suo fondamento, o la sua linfa originaria e inesauribile, è tutt’uno con la naturale dimensione spirituale dell’uomo. In una delle pagine introduttive di Il mondo della polis, osserva infatti Voegelin, forse ancora memore della lezione appresa da Othmar Spann, la cui costruzione «universalistica» egli aveva messo a confronto, nella sua giovanile dissertazione dottorale, con la costruzione individualistica formulata da Georg Simmel: «L’esistenza societaria dell’uomo ha una storia innanzitutto perché, al di là delle dimensioni dell’esistenza animale, le appartengono quelle dello spirito e della libertà; in secondo luogo perché per l’uomo l’ordine sociale è un modo di sintonizzarsi con l’ordine dell’essere; infine perché quest’ordine può essere attinto e realizzato dall’uomo nella società secondo gradi crescenti di approssimazione alla sua verità». Nella storia dell’esistenza societaria dell’uomo, nessuna «regolarità» si ripresenta perché guidata da un qualche finalismo o da una qualsivoglia logica predominante in questa o quella età. E ogni tentativo umano – poco importa se di pochi, di pochissimi, della maggioranza o di tutti – affinché un migliore ordine futuro subentri senza traumi insopportabili a quello che si avverte come, o davvero è, il disordine del presente, ha scarse probabilità di successo, quando ignori o trascuri il fatto che un «salto nell’essere » è sempre possibile. E che i «salti» già realizzati nella storia, pur se esigui di numero e all’apparenza lontanissimi dal presente, si sono rivelati assai più rilevanti – per l’esistenza societaria dell’uomo – di ogni smobilitazione e sostituzione di assetti politico-istituzionali magari assai longevi, di ogni disarticolazione dei raggruppamenti sociali, di ogni radicale ricambio delle formule mutevoli e talora volubili di legittimazione di chi ha il potere di comando sopra una larga massa o una stabile collettività. Incerta nei suoi esiti, oltre che faticosa e non di rado penosa per chi vi assiste come se si trattasse di un fatale naufragio, è anche la trasformazione in corso da comunità politiche ristrette e coese a comunità politiche meno intensamente e definitivamente «particolari»: dalla sussistenza di confini che identificano territori sempre più falsamente sovrani e indipendenti alla fattuale egemonia di spazi – economici, tecnologici, comunicazionali – che sembrano non patire alcuna delle delimitazioni più usuali; dalla pretesa di eternità che la «moderna», ed europea, organizzazione statale del potere non può non rivendicare (in conformità, del resto, con ogni altra sintesi politica) alla consapevolezza che anche le civiltà e le «culture» declinano, e magari per sempre scompaiono, insieme con le forme storiche della politica che esse hanno contribuito a generare. Eppure, è proprio questo il punto in cui la realtà di «storia» e «ordine» più duramente replica a tutte le ingenue credenze o aspettative, secondo le quali quella che si sta vivendo è una più o meno pacifica, o invece tumultuosa, «transizione». Sono il desiderio, la volontà e lo sforzo culturale di approssimarsi alla verità dell’esistenza societaria dell’uomo, e non le azioni e reazioni, o i campi di forza, che hanno innescato e sembrano guidare la transizione, a rendere possibile l’«ordine» futuro, a farci scoprire un’epoca nuova. E a far sì che non venga umiliata o definitivamente mortificata la fiducia che, per civiltà e culture di cui una folla di segnali sembra annunciare l’inevitabile tramonto, si è ancora in tempo a tessere un domani che non sia solo e malinconicamente un «futuro passato». L’Introduzione di Nicoletta Scotti Muth opportunamente e correttamente ricostruisce la collocazione originale di Ordine e storia, e ne valuta la straordinaria importanza, rispetto a posizioni e sviluppi centrali nella filosofia del Novecento.  In tal modo Nicoletta Scotti, cui va anche il merito di aver persuaso l’Editrice Vita e Pensiero a un’impresa ardua e di curarne la complessa attuazione a vantaggio del lettore italiano, riesce ad argomentare limpidamente le ragioni per cui l’indagine e la riflessione teorica sulla forma storicadell’esperienza, esposte da Voegelin nel primo volume Israele e la rivelazione, siano affiancate e completate – con Il mondo della polis – da quelle sulla forma filosofica dell’esperienza. Qui infatti, si devono cercare tanto la «diagnosi» quanto la «terapia» di ogni crisi, o di ogni trasformazione talmente estesa e radicale da apparire simile a una mutazione, della storia di tutto ciò che l’uomo costruisce, immagina nel suo presente e per il suo domani, è costretto a subire più o meno impotente. Da qui, da questa forma filosofica dell’esperienza, possono anche attingere una soluzione non disperante (o trovare, almeno, le risposte meno viziate dall’ovvia constatazione dell’ineluttabilità del declino e della morte) le più svariate domande intorno al futuro della storia, ai differenti o talvolta cicilici assetti dell’esistenza societaria, al destino e al significato della politica dentro le vicende feriali dell’umanità, così come nei suoi cambiamenti più repentini e radicali. Giacché – per ripetere le parole stesse di Eric Voegelin a proposito dell’etica tragica – «rimanere inerti equivale a disattendere Dike; l’uomo che non fa fronte alle circostanze con la decisione e l’azione trascura il proprio dovere».
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