mercoledì 22 giugno 2016
Padre Pepe nella VILLAS A scuola dalle periferie
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«La 'villa' non è solo un luogo da aiutare, bensì un ambito che ci insegna una vita più umana e, di conseguenza, più cristiana». Padre José «Pepe» Di Paola non ha cambiato idea. Eppure sono passati quasi dieci anni da quando lui e gli altri preti impegnati nelle baraccopoli di Buenos Aires recapitarono questo messaggio agli allora candidati sindaco della capitale. Era l’11 giugno 2007, a meno di due settimane dal ballottaggio. Il comunicato fu portato personalmente all’attuale presidente Mauricio Macri – esponente del centrodestra che avrebbe vinto la competizione – e al kirchnerista Daniel Filmus. I due rivali avevano visioni opposte del governo della città. Eppure coincidevano su un punto: l’urbanizzazione delle villas. Nel lessico latinoamericano, i cosiddetti 'insediamenti informali' cambiano nome a seconda della latitudine: barrios, ranchos, comunas, favelas… In Argentina, gli slum' annidati' nel cuore della metropoli come nella sterminata cintura urbana si chiamano villas: a Buenos Aires e dintorni sono 819. Dopo i falliti tentativi dell’ultima dittatura militare di raderle al suolo, con il ritorno alla democrazia si era fatta strada nelle amministrazioni l’idea di 'urbanizzarle'. «Riteniamo la parola 'urbanizzare' unilaterale, viene dal potere, non necessariamente con cattive intenzioni, e mostra uno svilimento della cultura della villa ». Per questo «non crediamo nell’urbanizzazione bensì in un incontro di culture che convivono, apprendono, condividono», scrissero i 'preti delle baraccopoli' o curas villeros. In tali parole riecheggiano le riflessioni stimolate, alla luce della realtà, dal loro arcivescovo, Jorge Mario Bergoglio, ora papa Francesco. Era stato quest’ultimo a incoraggiarli e sostenerli in questa 'rivoluzione copernicana' della geografia sociale (ed esistenziale). Le villas, emblema della periferia da 'civilizzare' – o 'urbanizzare' – diventano l’osservatorio privilegiato sulla città e sul mondo. Non solo: sono scuola di vita e di fede. «Non si va nella villa a insegnare nozioni, catechismo, religione. A 'portare' Cristo. Si va per incontrarlo dove è più visibile: nella loro lotta quotidiana dei suoi preferiti – i poveri – per creare e conservare spazi di umanità in mezzo alla miseria estrema, non solo economica», sottolinea padre Pepe, anticipando alcune delle considerazioni che presenterà al Meeting di Rimini, in una conferenza dal titolo «Incontrarsi in periferia». Di 'integrazione urbana' – il cuore di quel documento del 2007 – ha parlato il Papa nella visita alla baraccopoli di Kangemi in Kenya dello scorso novembre. Là, Francesco ha proposto «di riprendere l’idea di una rispettosa integrazione urbana. Né sradicamento, né paternalismo, né indifferenza, né semplice contenimento. Abbiamo bisogno di città integrate e per tutti. Che cosa significa? «I quartieri emarginati hanno capacità, qualità, potenzialità spesso ignorate dal resto della città. Quest’ultima – a volte perfino a fin di bene – crede di dover colonizzare le villas, imponendo la propria cultura e stili di vita, senza tener in considerazione quanto di buono c’è. Chi vive e lavora nelle baraccopoli, al contrario, sa che i poveri hanno tanto da insegnare in termini di solidarietà e resistenza creativa di fronte alle difficoltà. Oltretutto, essendo popolate in parte dai migranti, sono microcosmi multiculturali, in cui le differenze, non senza diffidenze iniziali, imparano a convivere. Una bella lezione… Certo, per scoprire la ricchezza degli 'ultimi' è necessario conoscerli. Il che richiede tempo e umiltà. Spesso, invece, si va alle periferie con il piglio del maestrino». Concetti che, a nove anni di distanza, voi curas villeros avete ribadito in un nuovo documento lo scorso 11 maggio, 42° anniversario della morte di padre Carlos Mugica, assassinato per il suo impegno nelle baraccopoli. «Riflettendo a partire dal nostro lavoro concreto, continuiamo a scommettere sull’integrazione urbana. E chiediamo allo Stato un intervento intelligente nelle villas che garantisca il diritto dei residenti a una vita degna. Il potere pubblico deve realizzare iniziative per favorire il lavoro, le comunità, i movimenti sociali organizzati, nati per iniziativa della gente e della Chiesa. L’orizzonte del nostro impegno pastorale è definito dalle cosiddette tre 't' (tierra, techo, trabajo ovvero terra, casa, lavoro) di cui parla Francesco». Che cosa significa 'intervento pubblico intelligente'? «Vuol dire imparare gli uni dagli altri. Le villas mostrano ai quartieri di classe media o a quelli dell’élite un’alternativa all’individualismo feroce. Nelle baraccopoli ci sono forti valori evangelici: la fede lì non è una dimensione astratta, intellettuale o ideologica. Ha a che fare con la vita. E si traduce in vita. I villeros la esprimono nella dimensione della religiosità popolare che non è folclore. Nelle celebrazioni della Vergine o dei santi, la gente sperimenta e promuove solidarietà, fraternità, pace, giustizia. Questo non vuol dire 'idealizzare' gli slum: sappiamo bene che ci sono problemi gravi, in termini di miseria, emarginazione, violenza. Il resto della città può dare loro molto in termini di sviluppo urbano, competenze tecniche e scientifiche, risorse culturali. Il punto è il reciproco scambio, l’unica via per la crescita umana e cristiana». Può farmi un esempio? «Quando lavoravo nella villa 21-24 – attualmente sto a La Carcova, nella cintura urbana – organizzavo delle giornate di convivenza per i ragazzi insieme alla parrocchia del Socorro, situata nell’esclusivo Barrio Norte. I giovani di due realtà così diverse si conoscevano, confrontavano le loro esperienze, scoprivano, al di là degli stereotipi, l’altro, nella sua dimensione più umana». Perché presentare in Italia un documento sulle baraccopoli di Buenos Aires, una metropoli dall’altra parte del globo, alla fine del mondo? «Perché dalle periferie si vede meglio il centro (ride)… La 'lezione dei poveri' – in termini soprattutto di antidoto all’individualismo esasperato e all’idolatria del denaro – non vale solo per gli abitanti di Buenos Aires. Ce lo insegna il Vangelo».
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