mercoledì 27 gennaio 2016
COMMENTA E CONDIVIDI
Siamo chiusi in una stanza. Un bambino di pochi anni urla in modo straziante, e sappiamo perché: la chemioterapia lo ha disidratato, ma qualsiasi liquido gli proponiamo lui lo vomiterà. Abbiamo provato di tutto ma nulla funziona. Alla fine ci gettiamo in ginocchio e preghiamo. E il pianto cessa. È un videogioco. Ed è anche una storia vera. È That Dragon, Cancer(“ Quel drago, il cancro”), uscito una decina di giorni fa dopo che la comunità dei videogamer ne parlava da tempo. E subito ha suscitato l’interesse dei maggiori quotidiani internazionali. Perché il termine videogame a That Dragon, Cancer sta molto stretto: dimostrazione del salto di maturità del genere, è l’esempio di una nuova forma di arte narrativa in cui l’interazione è strutturale.  È l’opera di Ryan e Amy Green, una coppia di programmatori americani, che vi hanno trasfuso l’esperienza della malattia del loro secondogenito Joel, morto di cancro a cinque anni il 13 marzo 2014, dopo aver lottato contro il tumore – contro ogni speranza medica – per quattro anni. Ma That Dragon, Cancer non è il realistico resoconto di una malattia e non è semplicemente un drammatico racconto autobiografico. Il videgioco mantiene un senso di distanza prima di tutto nell’approccio visivo. I personaggi sono completamente privi di lineamenti. Soli elementi caratteristici sono capelli, barba e occhiali, mentre realistici sono i gesti e le voci sono quelle vere di Ryan, Amy e Joel. Anche l’ambientazione ha una qualità astratta che la rende onirica. Il nostro punto di vista all’interno del sistema continua a cambiare: siamo di volta in volta un’entità terza, uno dei genitori, lo stesso Joel. È una soluzione che costrin- ge a entrare in intimità con la complessità della situazione.  Ci sono scene realistiche (il padre che deve applicare al figlio un sondino nasale) momenti spensierati (in un parco giochi gettiamo del pane alle anatre), altri surreali (una cosa sulla carrozzina, dove i bonus sono dati da flaconi di chemio), altri capitoli ancora simili a sogni e allegorie. Se non manca la leggerezza, molti “livelli” sono spietati, come quello in cui Joel, con armatura e lancia, affronta il proprio drago. Ma per quanti sforzi faccia, il drago vince sempre. Perché come nella realtà, il videogame ha una conclusione inevitabile. Il “gioco” costringe all’interno di un limite. Poco ci è concesso.  Come non era nelle possibilità dei genitori sottrarre Joel al suo destino. That Dragon, Cancer è il modo con cui due genitori elaborano il più terribile dei lutti. E questo avviene attraverso la condivisione del senso di perdita e di speranza, del dolore e della fede, che dalla virtualità del gioco conquista lentamente, ma inesorabilmente la realtà. «Un’esperienza sconvolgente» è il giudizio di gran parte dei recensori. Ma l’elemento che più ha colpito non è tanto la tragedia ma è la spiritualità di cui è intriso il videogame. Perché i Green sono profondamente cri- stiani. E l’elemento della fede (come nella citata scena della preghiera, alla base del progetto, avviato quando Joel era ancora vivo) diventa il vero cardine del racconto. Fino al drammatico capitolo conclusivo, ambientato in una cattedrale dove risuonano le (vere) preghiere della notte dell’agonia di Joel. Nello svolgersi della storia siamo obbligati a confrontarci con la fede di Amy, che confida in un miracolo, e quella carica di dubbi di Ryan. «È un gioco che non smette mai di farti porre domande – ha scritto Todd Martens del “Los Angeles Times” –: cosa significa mantenere la fede davanti all’indicibile? È giusto sentirsi bene nel momento della tragedia? Stiamo cercando un miracolo o la nostra serenità? ». «Questo, più che ogni altra cosa, è un gioco sulla fede» scrive Tom Hoggins del “Telegraph”. That Dragon, Cancer costringe il “giocatore” ad affrontare direttamente il mistero della morte e del male. In un lungo reportage pubblicato dall’edizione americana di “Wired”, Jason Tanz sottolinea come le domande suscitate dal videogame siano «il tipo di dilemmi spirituali ed esistenziali che hanno ossessionato l’umanità fin da Giobbe». Ma allo stesso tempo è un videogioco che fa a pezzi tanti luoghi comuni sulla religione. Molti dei recensori si definiscono «non credenti» eppure non possono fare a meno di essere interpellati dall’esperienza di una fede contro ogni logica, e che pure non è cieca o fanatica. Una fede che cerca faticosamente, ma fiduciosamente, un senso. La chiave di That Dragon, Cancer, allora, non è la morte prematura di Joel, ma la sua presenza come dono. Senza ridurre di un solo punto la cruda verità della storia. «Il dolore non significa che hai fallito – dice Amy –. La sofferenza non significa che hai fallito. In un modo strano, penso che soffrire significhi che hai vinto».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: