domenica 2 ottobre 2016
Le donne velate fuori dall'islam
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Quando l’anno scorso H&M, il colosso svedese dell’abbigliamento low cost, ha mostrato la prima pubblicità interpretata da una modella con lo hijab in una campagna che invitava a reinventare liberamente stile di vita e modo di vestire ci si chiese se l’intento di quello spot fosse politico, una sorta di depotenziamento di un simbolo di identità religiosa, alterità e persino di scontro, o non piuttosto una scelta meramente commerciale. Un’accorta operazione di marketing sul promettente mercato musulmano, attraverso l’esibizione del velo, elegantemente indossato come un accessorio chic e seducente. Non sarebbe stata la prima volta per la moda, assurta a questione pubblica, di enfatizzare la contraddizione che un certo modo di coprire il capo porta con sé, l’incoerenza insita nel velo che copre e nasconde ma insieme abbellisce e attrae.È successo in epoca medievale, quando le donne velate eravamo noi, le occidentali, le europee, cristiane soprattutto. E non solo monache. Velate secondo una tradizione e una consuetudine antiche, in segno di subordinazione, modestia, rispetto, onestà e pudore, obbligate a ciò, a partire dal XIII secolo da minuziose normative, eppure capaci attraverso la moda di trasformare quell’oggetto altamente simbolico nell’inneggiare alla semplicità, in tutt’altro. Un accessorio ricercato, talvolta parte di complicate, ardite e preziose architetture con cui le donne hanno abilmente giocato; un pezzo importante anche nei corredi più umili, approdato nel Cinquecento al culmine della sua importanza nell’attività produttiva e commerciale di molte città italiane ed europee, un must nella moda e nell’arte, come dimostra l’articolata ricerca della storica Maria Giuseppina Muzzarelli intitolata A capo coperto. Storia di donne e di veli pubblicata da Il Mulino (pagine 216, euro 16,00). La ricerca di Maria Giuseppina Muzzarelli – docente di Storia medievale, Storia delle città e Storia del costume e della moda all’Università di Bologna – ricostruisce con meticolosità il percorso che ha riguardato da vicino le donne occidentali a lungo obbligate al capo coperto, con un occhio proiettato all’oggi, alla sparizione del velo dagli orizzonti comuni attuali, come segno di status persino dalle teste delle spose e delle vedove, e al suo confinamento nei territori considerati sorpassati e inquietanti della sottomessa femminilità islamica. Un foulard certo riappesantito di significati identitari e religiosi che nulla hanno a che fare con quelli insiti nei foulard che hanno sfoggiato fino a cinquant’anni fa Audrey Hepburn o Jacqueline Kennedy. Accessori di lusso, puri esaltatori di bellezza e di charme.«Il Medioevo – spiega la storica – anche grazie alla moda, ha consegnato alla modernità un velo piuttosto alleggerito di significati che la contemporaneità ha provveduto a complicare terribilmente. Ormai il velo non è più un velo e basta». Ciò che le donne si sono messe in testa, veli impalpabili ma non solo veli, dai tempi di Penelope a quelli delle Vestali e delle matro- ne romane ha sempre sotteso significati di morigeratezza, pudore e riserbo anche se mai ha inteso sacrificare la bellezza e la grazia femminili. Se poi in età medioevale gran parte delle donne, tranne adultere e meretrici, andava a capo coperto – per strada, in chiesa ma anche in casa – era dunque un costume diffuso, una moda secolare adottata in automatico. Ma anche reinterpretata in mille soluzioni creative. «Le acconciature estrose e i copricapo stravaganti ed elaborati che dal XIII secolo hanno preso a comparire sulle testa delle donne eludevano e al tempo stesso rispettavano la regola», continua Maria Giuseppina Muzzarelli. «Per molti pensatori medievali il velo serviva a segnalare il rispetto di una gerarchia che vedeva le donne suddite degli uomini e di Dio, ma soprattutto segnalava e in qualche misura contrastava la pericolosità del corpo femminile, che quindi andava coperto, nascosto, neutralizzato».I moralisti si scagliavano contro acconciature e abbigliamenti stravaganti, lussuosi e provocatori, simboli di vanità e peccato; i legislatori provvedevano a legiferare, chiarendo bene cosa si poteva concedere e cosa proibire. I lunghi elenchi di proibizioni e le minuziose sanzioni da comminare a una varietà di ornamenti, coroncine, reti preziose, acconciature tempestate di perle, la dicono lunga sulla capacità di trasgressione delle donne, ovviamente di quelle benestanti, incuranti delle pene e più verosimilmente interessate a mettersi in mostra agghindandosi vistosamente, rappresentando contemporaneamente, a partire dalla testa, lo status di famiglia.Le testimonianze offerte dall’iconografia del tempo sono impareggiabili nel raccontare le tendenze del gusto e le soluzioni fantasiose talvolta macchinose offerte da certi copricapo ma anche l’innovazione nella produzione di tessuti raffinati e manufatti che vedevano un coinvolgimento imprenditoriale e di manodopera al femminile sorprendente. Di molte artigiane modiste, ricamatrici di grande perizia e merciaie impegnate su piazze internazionali si conoscono persino i nomi. «Sta di fatto che quelle stesse donne che erano tenute a stare a capo coperto fecero della produzione di veli da mettere in testa, e soprattutto di arete e cuffie, un mezzo di affermazione personale e di gruppo». Un’altra delle tante ironie della moda.
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