sabato 24 ottobre 2015
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«Ero comunista, antifascista militante, e ora posso dire che sbagliammo anche noi, in quegli anni infuocati». Da Manlio Milani, oggi 77enne, che in quel clima di scontro frontale perse la moglie Livia (insegnante, di soli 32 anni) in Piazza della Loggia a Brescia, arrivano le parole che non ti aspetti. Non l’odio verso i 'nemici', protagonisti peraltro rimasti spesso 'coperti' di una stagione piena ancora di punti oscuri, ma una presa di coscienza coraggiosa sui guasti cui può portare, anche oggi, la violenza verbale. Che cosa accadde quella mattina del 28 maggio di 41 anni fa? «La sera prima eravamo a casa di amici con i coniugi Trebeschi - moriranno, tutti e tre insegnanti, il giorno dopo - a parlare di questa manifestazione che ci sarebbe stata all’indomani per lo sciopero generale indetto dai sindacati. C’erano stati dei falliti attentati in quei giorni alla redazione locale del Corriere della Sera e a una sede della Cisl. C’era in noi il desiderio di dire un no forte alla violenza, in quel periodo soprattutto neofascista, e decidemmo di andare. Ero a pochi metri da loro tre, per una casualità mi allontanai per qualche istante e così sono qui». Quale ruolo sente di svolgere per esser rimasto in vita così, per caso? «Ho capito da quella sera che, pur nel dolore grandissimo, mi toccava un ruolo di testimonianza, quel che mi era accaduto riguardava tutti». L’incontro fra 'vittime' e 'carnefici' è il percorso giusto? «È giusto perché consente di andare al fondo del perché di quei fatti, ed è liberante per tutti». Liberante per chi è dentro quell’incubo. Ma per gli altri? «Uscire da una logica di rancore e vendetta è una proposta da fare a tutta la società, elaborare la memoria dei fatti accaduti è decisivo all’interno di una democrazia, per lo stare insieme di una comunità». Percorso più difficile per la stagione delle stragi, costellata di punti interrogativi su autori e mandanti. «Purtroppo è così, è più difficile aprire un dialogo con la destra eversiva, per i legami che conservano fra loro, le diffidenze e anche per il ruolo assunto dai Servizi deviati. Anche se con alcuni di loro abbiamo iniziato un percorso nel nostro 'Gruppo'». La stagione delle stragi e il caso Calabresi che ne scaturì insegna, nell’epoca della violenza verbale sui social network, che anche le parole possono portare a uccidere. «Infatti questa riflessione non vale per ieri ma per l’oggi. Dialogando con loro mi rendo conto che anche la vittima deve interrogarsi. Quando io nei cortei gridavo 'basco nero il tuo posto è al cimitero' è chiaro che alimentavo con un linguaggio violento il clima di quegli anni. E questo oggi lo vivo a mia volta come una colpa». Come inizia il dialogo? «Io militavo nel partito comunista, e mi sono chiesto nei confronti degli ex della lotta armata: chi sono loro, perché hanno fatto una scelta diversa? L’ho fatto con persone ex br come Alberto Franceschini che avevano una base di partenza ideologica comune alla mia, ma hanno finito per fare scelte molto diverse. Altrettanto stiamo iniziando a fare con loro. Mi sono chiesto che volto hanno queste persone o, se vogliamo, che volto ha il male. E ho scoperto che sono persone come me. Andare oltre il fatto in sé, parlare, è questa la strada. Abbiamo avuto e avremo ancora molto bisogno di stare fra di noi, per incontrarci e capirci. Poi ci sarà da spiegarlo bene all’esterno, a una società che è molto diffidente. Il libro è sono l’inizio di un percorso di spiegazione».
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