venerdì 26 giugno 2015
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L’11 luglio sarà il ventennale della strage di Srebrenica, perpetrata in Bosnia poche settimane prima che finisse la guerra che – inadeguatamente, con parola che ne fa una sintesi, ma non le rende giustizia – va sotto il nome di serbo-bosniaca, durata dalla primavera del 1992 alla fine del 1995. Non le rende giustizia perché altre, in aggiunta ai serbi e ai bosniaci, furono le parti in essa coinvolte: i croati (alleati, poi nemici e poi ancora alleati dei bosniaci), i montenegrini (alleati dei serbi); e soprattutto gli altri attori occulti di questo atroce processo, vale a dire le potenze che sullo scacchiere internazionale offrirono alle parti in guerra non dichiarate compiacenze e complicità, rendendo la Bosnia-Erzegovina un inferno per tre anni, segnato da centinaia di migliaia di morti, da stupri etnici, da efferatezze che si credevano confinate nel passato.Provate ad andarci ancora adesso. Provate a parlare della guerra a Medjugorje, ad esempio: vi guarderanno come chi abbia proferito una bestemmia in un luogo sacro, quantunque non sia stata quella un’area particolarmente toccata dal conflitto e poi elevatasi a luogo d’immensa devozione mariana, al di là degli attesi pronunciamenti della Santa Sede sulle apparizioni.  Provate, se siete a Banja Luka – di fatto la nuova, seconda capitale dell’area rimasta dal ’95 sotto l’influenza di Belgrado – a definire Sarajevo capitale della Bosnia, quale storicamente è; o viceversa a definire “altra” capitale la filoserba Banja Luka quando vi trovate a Sarajevo. Questa è una terra in cui nulla è accettato. In cui il silenzio è figlio dell’impossibile perdono. Dal 1995 Srebrenica, località nel Sudest della Bosnia presso il confine serbo, indica la più grande strage d’inermi civili perpetrata nel cuore dell’Europa a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, con modalità atroci.  Provate ad andare a Srebrenica, e a parlare degli 8.372 maschi bosniaci dai sedici ai sessant’anni (ma si sono trovati anche bambini, donne e vecchi in altre fosse comuni) trucidati a raffiche di kalashnikov da serbi e cetnici, o irregolari serbi, in tre giorni, a luglio del ’95: la guerra volgeva al termine e l’inutile strage – tramontato il progetto della Grande Serbia – non avrebbe modificato gli equilibri ormai raggiunti o non raggiunti dalle parti belligeranti: che peraltro non è neanche giusto definire così, giacché i civili trucidati non erano tecnicamente belligeranti, erano solo musulmani bosniaci, e neppure i loro uccisori, se irregolari serbi. Provate a chiedere se qualcuno ricorda quei tre giorni di camion pieni di pre-morti che, quando avevano capito di venire condotti al macello, dai mezzi gridavano, a volte, piangevano, battevano contro le fiancate, imploravano un impossibile aiuto e maledicevano i caschi blu olandesi dell’Onu che li avevano abbandonati, rendendosi di fatto ostaggio dei serbi e consegnandoli al nemico, le cui intenzioni di pulizia etnica erano note.Provate a chiedere dei tre giorni di kalashnikov alzati davanti alla nuova fila da abbattere di uomini, spinti, fuori dei camion, sull’orlo delle fosse comuni piene di cadaveri e di agonizzanti. Non molti vogliono ricordare, veramente, a Srebrenica. Tutti sanno, alcuni hanno anche visto, la non memoria è l’unica fragile linea su cui cammina il sopravvivere a tanto orrore, a distanza di tempo.Srebrenica è allora un nome da pronunciare spesso fuori della Bosnia-Erzegovina: a memoria delle forme che il male assume, sempre cangianti e più avanzate rispetto all’esperienza che se n’è fatta, per scavalcarla. L’historia, in Bosnia, non è magistra vitae. Lì funzionano l’apparente rimozione, la muta convenzione del silenzio, l’attesa. Srebrenica dev’essere allora un monito per il mondo, da coltivare non solo in occasione di un tragico ventennale. Da avere presente per rammentare che il male è in agguato non solo nei Balcani, in Bosnia, ma – con nuovi volti, in altre terre – ovunque.Chi è l'autore. L’autore di questo articolo, Giovanni D’Alessandro, è un romanziere abruzzese, nato a Ravenna nel 1955 e che vive e lavora come avvocato a Pescara. I suoi romanzi 'Se un Dio pietoso' (Donzelli 1996), 'I fuochi dei kelt' (Mondadori 2004), 'La puttana del tedesco' (Rizzoli 2006), 'Soli' (San Paolo 2011) e il recente 'La tana dell’odio' (San Paolo 2014), ambientato sullo sfondo della guerra in Bosnia-Erzegovina del ’92-’95, sono stati apprezzati dalla critica e dal pubblico, premiati, tradotti e pubblicati dai maggiori editori europei.
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