martedì 26 luglio 2016
​Le persone, la società e il pianeta stesso soffrono di tanti sfregi, eppure abbiamo paura di guardarli perché ci spaventa vedere in faccia la nostra mortalità e debolezza Come collaborare allora alla guarigione? Una meditazione dell’arcivescovo di Manila (Filippine).
Tagle, cristiani chini sulle ferite del mondo
COMMENTA E CONDIVIDI

Oggi le persone, la società e il pianeta stesso soffrono di molte ferite.  L’infedeltà e il fallimento delle relazioni in seno alla famiglia procurano ferite a tutti i suoi membri, i quali purtroppo ne trasmettono di frequente le conseguenze alle generazioni successive. Le culture indigene e le loro tradizioni sono ferite da altre culture che pretendono di essere superiori. L’individualismo, con la sua insistenza unilaterale sui diritti della persona, ferisce molto spesso la capacità delle persone di occuparsi degli altri. L’etnocentrismo, la xenofobia, il nazionalismo e l’intolleranza religiosa sono atteggiamenti sociali che feriscono i più poveri. L’individualismo stigmatizza gli stranieri, le minoranze, i migranti e i poveri; mette loro contro la società – ovvero li discrimina – e li accusa di essere la causa di tutti i problemi.

Anche i mezzi di comunicazione e la tecnologia, pur avendo fornito un contributo positivo alla società, si sono trasformati in strumenti di violenza, di corruzione, di sfruttamento dei bambini e delle donne attraverso il «sesso virtuale». La cultura prevalentemente materialista e consumista in cui viviamo ferisce inoltre i lavoratori indifesi e l’ambiente. Sono in corso conflitti di tipo etnico, politico e religioso, che continuano a generare un numero incommensurabile di rifugiati, di vittime del traffico di esseri umani e di nuovi schiavi. Gruppi internazionali di terroristi distruggono vite, sogni, luoghi dal grande valore storico e culturale e, in definitiva, il nostro meraviglioso mondo. 

Soffriamo anche per le ferite causate ai bambini, alle donne e ai poveri in generale dagli abusi perpetrati da alcune figure ecclesiali. Le ferite ci ricordano che devono essere curate. Ma come si fa? Come possiamo collaborare alla loro guarigione? Invito tutti a innalzare lo sguardo al Signore risorto e a imparare da lui. Il Vangelo di Giovanni, tra i resoconti delle apparizioni del Risorto, comprende quella di Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente! ». E gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Cerchiamo di immaginare come si sarà sentito Tommaso. Quando vede e tocca le ferite del Signore risorto, compie la suprema professione di fede. Ciò è stato vero per Tommaso ed è vero anche per la Chiesa in ogni tempo.

 Il teologo Tomáš Halík dice che «Cristo gli si avvicina [a Tommaso] e gli mostra le proprie ferite. Ciò significa che la risurrezione non comporta l’eliminazione o la svalutazione della croce. Le ferite continuano a essere ferite». Le ferite di Cristo permangono nelle ferite del mondo. Halík aggiunge: «Il nostro mondo è pieno di ferite. Sono convinto che coloro che chiudono gli occhi sulle ferite del nostro mondo non hanno diritto a dire: “Mio Signore e mio Dio!”». Secondo questo autore, toccare le ferite di Cristo nelle ferite dell’umanità è condizione di una fede autentica: «Non posso credere fino a che non tocco le ferite, il dolore del mondo. Perché tutte le miserie di questo mondo e dell’umanità sono ferite di Cristo. Non ho il diritto di confessare Dio se non sono capace di prendere sul serio il dolore del mio prossimo. La fede che chiude gli occhi sulla sofferenza delle persone non è altro che un’illusione».

La fede, dunque, nasce e rinasce di continuo solo dalle ferite del Crocifisso e del Risorto, che vediamo e che tocchiamo nelle ferite dell’umanità. Solo una fede ferita è credibile, conclude Halík. Mostrando le ferite ai discepoli, Gesù vuole mantenere viva in loro la sua memoria. Le ferite di Gesù sono le conseguenze della sua relazione amorevole e ricca di compassione verso i poveri, i malati, i pubblicani, le prostitute, i lebbrosi, i bambini, gli emarginati e gli stranieri. Gesù è stato crocifisso per aver amato queste persone concrete, ferite loro stesse dalla società e dalla religione. Avendo condiviso le loro debolezze e le loro ferite, è giunto alla perfezione in quanto fratello comprensivo e non in quanto rigido giudice. C’è poi un altro aspetto da sottolineare. Tali ferite ricordano ai discepoli anche il loro tradimento e abbandono, quando, impauriti, cercarono di salvare sé stessi. Ma ciò che rende realmente l’apparizione di Gesù un mistero divino è il fatto che egli non si vendica dei suoi discepoli. Al contrario, offre loro la pace, la riconciliazione, la possibilità di cambiare e di convertirsi. Le ferite di Gesù inducono i discepoli a credere che, anche se c’è stato un tradimento, è possibile la riconciliazione. Le ferite del Signore risorto offrono ai peccatori e ai traditori la giustizia divina, non la condanna. Se vogliamo essere operatori di guarigione, dobbiamo essere consapevoli che il nostro mondo contemporaneo tendenzialmente si rifiuta di guardare e di toccare le ferite di Cristo nelle ferite delle persone.

Abbiamo paura a guardare e a toccare le ferite perché ci spaventa vedere in faccia la nostra mortalità, la nostra debolezza, la nostra realtà di peccatori, la nostra vulnerabilità. Ci affascina l’idea che, se abbiamo molti soldi, una buona assicurazione, se siamo ben protetti dentro le nostre case, possediamo l’ultimo modello di qualche automobile e i più aggiornati apparecchi elettronici e frequentiamo una buona palestra, possiamo essere immortali. Ci costa riconoscere che eliminiamo le persone ferite dai dintorni delle nostre case, le facciamo sparire quando abbiamo visite importanti e nascondiamo le loro baracche dietro pareti decorate da piacevoli murales. Nell’ottobre 2015 ho visitato il campo profughi di Idomeni, in Grecia, vicino alla frontiera con l’ex repubblica iugoslava di Macedonia. Erano arrivate fin lì migliaia di persone affamate, stanche e disperate, in fuga dalla Siria, dall’Iraq e dall’Afghanistan in guerra. Avevano potuto portare con sé solo qualche indumento e il loro tesoro più prezioso: la propria famiglia. Là le ferite si potevano vedere, se ne poteva sentire l’odore, le si poteva toccare. In quel luogo vi era molta angoscia, ma c’era anche molto coraggio, molta dignità e un grande e valido impegno a mantenere viva la speranza.

Ho parlato con una donna greca che stava sovrintendendo alla distribuzione di cibo, vestiti e medicine. Era un’operatrice attiva nel campo. Le ho domandato se faceva parte del suo lavoro. Mi ha risposto di no, che si era offerta come volontaria. Sorpreso dal fatto che aggiungesse un servizio al lavoro ordinario, le ho chiesto perché. Mi ha risposto: «Anche i miei antenati sono stati profughi. Ho la condizione di rifugiata nel Dna. Questi profughi sono miei fratelli e mie sorelle. Non li posso abbandonare». Sono parole di amore e di misericordia che provengono da generazioni di persone ferite. Quando, poco dopo, stavo per andarmene da quel luogo, ho visto un cartello che indicava l’uscita: in greco, c’era scritto Exodos. Esodo. Sì, Dio è alla guida del suo popolo. Il Signore risorto sta conducendo i feriti sulla via che, dal terrore della morte, va verso la speranza di una vita nuova. In quel campo c’era il Signore risorto. L’ho incontrato lì, tra i feriti.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: