mercoledì 8 luglio 2015
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Parlare di un ritorno sembra quasi azzardato, tanto è l’affetto che i lettori hanno continuato a riservare all’opera di Luigi Santucci, il grande scrittore milanese morto nel 1999 qualche mese prima di compiere 81 anni. I lettori dunque no, ma con il tempo un po’ gli editori si sono distratti, rendendo almeno in parte difficoltoso il reperimento dei suoi titoli. Una situazione alla quale pone ora rimedio l’iniziativa di Aragno, che già nel 2011 aveva sorpreso gli appassionati di Santucci con I nidi delle cicogne. Nel volume, curato da un impeccabile Marco Beck, figuravano numerosi scritti inediti o rari, tutti ugualmente utili per apprezzare il nitore della prosa di Santucci e la dolente arguzia della sua umanità. Non è stato, per fortuna, un episodio isolato. La riproposta organica dei testi di questo autore ugualmente amato da critica e pubblico prosegue adesso con i due corposi tomi delle Opere (pagine 848 complessive, euro 50,00), nelle quali si ritrovano romanzi e raccolte compresi tra la metà degli anni Quaranta e la metà degli anni Sessanta. Si comincia con il cantabile esordio di In Australia con mio nonno (1947), che continua a rappresentare un magnifico esempio di picaresco all’italiana, e si prosegue con i racconti dello Zio prete (1951), nei quali il microcosmo del cattolicesimo preconciliare è ritratto con ironia lieve e partecipe. Il salto di scala porta la data del 1963: è l’anno del Velocifero, il capolavoro che ritrae con ineguagliata adesione la Milano del tardo Ottocento. Completano l’elenco due raccolte – forse meno conosciute ma non meno preziose – di prose a metà strada fra narrazione e riflessione. Sono i bozzetti teologici dell’Imperfetta letizia <(1954), nei quali si avverte anche la presenza di don Primo Mazzolari, e i dodici pannelli di Prossimo tuo(1966), da cui riprendiamo la meditazione sul nemico riprodotta in queste pagine. Un testo che basta, da solo, a giustificare la definizione dell’ispirazione di Santucci come «“cattolica” (vale a dire universale)» che Claudio Magris incastona nella sua prefazione alle Opere. (A.ZAcc)Estate 1916. A quota 2000, una trincea italiana e una austriaca si fronteggiano in una logorante guerra di posizione. Un po’ discosto dalla fortificazione tedesca, dentro un ridottino, c’è annidato un maledetto tiratore: è un “cecchino”, e non sbaglia un colpo. Al confronto di quella minaccia, del suo fucile che ogni giorno spacca la fronte a due o tre alpini, la trincea austriaca – con tutte le sue bocche da fuoco – è quasi un’innocua e bonaria sagoma. Il cecchino invisibile e infallibile è più che la paura e la morte: è una tremenda ossessione, e i soldati lo sentono come Satana in persona. Nelle file italiane c’è un giovane sottotenente. Cinque dei suoi uomini migliori sono già caduti sotto la fucilata secca di quell’assassino. La sua fantasia d’intellettuale ha condensato su quel nemico un odio lucido e folle al tempo stesso, una sete di vendetta più forte di quanta ne provano tutti i suoi compagni. Un giorno decide di farla finita. Al calar della sera, con un lungo cautissimo aggiramento riesce a portarsi alle spalle del cecchino, strisciando gli si avvicina: non è più che a una decina di metri da lui e già spiana il moschetto. L’altro, ignaro, ha acceso una sigaretta, s’è messo a canterellare. Cosa diavolo canta? Quel motivo, quelle parole... L’italiano, quasi automaticamente, le ripete fra i denti. Rivede un giardino, un lago, una certa altalena: e l’altro che facendolo dondolare gl’insegna quella filastrocca tedesca. Nella sua mente, vent’anni rotolano indietro come nebbia spinta dal vento. Ecco, l’austriaco s’è girato di profilo. È lui, non ci sono dubbi: il piccolo biondo Fritz che sua madre, quando veniva alla villa per la merenda, chiamava sorridendo «l’amico Fritz». Hanno giocato tanto in quella lontana estate, si sono confidati grandi segreti. Che caro, beneducato bambino quel Fritz. L’italiano non lo ha mai dimenticato. Da qualche istante, ascoltando la cantilena, ha dimenticato invece tutto il suo odio, la sua precisa e ormai quasi conclusa missione: fracassargli la testa, liberare sé e i suoi compagni dall’incubo. Quando torna alla realtà, la sua decisione è istintiva e razionale insieme: non lo ucciderà, lo farà prigioniero. Gli balza addosso: ricorda bene che anche vent’anni prima lui era molto più forte di quell’altro, e nelle finte lotte di ragazzi riusciva facilmente a metterlo a terra. Si rotolano sul terreno: ma una bomba esplode, una bomba che il cecchino aveva addosso. Tutti e due sono feriti gravemente. Durante l’agonia dell’austriaco, l’italiano, che ha una gamba fracassata, gli parla all’orecchio: parla dell’altalena, di aquiloni e di animali con cui hanno giocato insieme in quelle vacanze sul lago. «Perdonami se ti odiavo tanto, Fritz: non sapevo che eri tu». L’episodio è patetico, a qualcuno potrà apparire addirittura sdolcinato. Ha tuttavia il pregio di essere autentico (a me lo raccontò il sopravvissuto dei due protagonisti) e di fornirci l’avvio per qualche riflessione sul concetto di “nemico”, restando ancora al di fuori dei grandi imperativi con cui la religione affronta il nostro rapporto verso coloro che chiamiamo con questo nome. M’è capitato poi spesso di raccontare la storia di Fritz, cioè del dissolversi d’un odio cieco e mortale nelle reminiscenze d’un’infanzia comune. E una volta, qualche anno fa, questo aneddoto di guerra ebbe una sua appendice umoristica e, nel suo genere, edificante. M’ero sfogato con un amico d’una cattiva azione fattami da un conoscente comune: gli dissi della rottura dei nostri rapporti, del mio insuperabile disprezzo e rancore verso quell’individuo. Un giorno l’amico mi mandò a casa un bizzarro e spiritoso “collage” dove, su una vignetta di due bambini vestiti alla marinara che giocavano a rincorrere farfalle, aveva incollato – procurandosele da due fotografie – le teste del mio nemico e la mia, naturalmente in età adulta; ma l’abile gioco degli incastri, la traiettoria degli sguardi, i nostri sorrisi, conferivano alla scena un sapore delizioso e grottesco. «Ricordati dell’amico Fritz», aveva scritto l’autore sotto al fotomontaggio. «E tieni per tre giorni quest’immagine sulla tua scrivania». La sera del quarto giorno cenavamo tutti e tre in un ristorante di lusso, annaffiando con qualche bottiglia una schietta riconciliazione. Ho indugiato con aneddoti da salotto attorno a uno dei temi più tragici della storia e della convivenza umana: l’inimicizia; ho parlato di un peregrino stratagemma: quello d’immaginare l’infanzia del nostro nemico per liberarci della maledizione di odiare e per tentare, dell’uomo detestato, il ricupero “come prossimo”: possono essere vie psicologiche e sentimentali, ma non dobbiamo sottovalutarle. Il teatro è pieno di quelle belle scene a effetto che si chiamavano “agnizioni”: cioè il riconoscersi di due personaggi, che si ritengono estranei o addirittura antagonisti, come consanguinei (padre e figlio, fratello e sorella) attraverso un imprevisto: una medaglietta al collo, una cicatrice sul corpo; ed ecco allora il capovolgersi, o comunque il risolversi positivo e festoso della situazione. Ebbene: quante “agnizioni” tipo Fritz non ci toccherebbe di vivere se potessimo alzare al nostro nemico la maschera di ferro con cui gli abbiamo coperto il volto per poterlo odiare, uccidere; per concederci, in ogni caso, d’ignorarne l’umanità. Non occorrerebbe, in effetti, avere con la persona che consideriamo nemica un’infanzia comune, esserci sospinti a vicenda su una vecchia altalena. Tutti, in qualche modo, siamo stati compagni d’infanzia e di giochi di quanti respirano con noi sulla crosta terrestre. A volte potrebbe bastarci di leggere una lettera, di vedere una fotografia che l’altro tiene nel portafogli; di guardarlo entrare in un cimitero con un mazzo di fiori e le spalle curve di pena; di riconoscere sul suo tavolino un libro che abbiamo letto anche noi: e ci verrebbe alle labbra l’esclamazione di quell’ufficialetto riverso a fianco del moribondo Fritz: «Non sapevo che eri tu...». Basterebbe forse – se fossimo capaci d’una tale astrazione – pensare proprio e soltanto questo: che di lui, di quell’uomo, abbiamo ignobilmente fatto il nostro nemico; e perciò egli va attorno, mangia e s’addormenta sotto il dardo del nostro odio, del nostro avvelenato rancore. Davvero egli è dunque “il più povero”: poiché le leggi tenebrose dell’abominio lo hanno relegato laggiù, oltre la gittata della nostra pietà. Se per una faida di famiglia o per una situazione bellica egli è “il nemico”, un imperativo stolto e implacabile vuole che nel raggio del suo respiro s’arresti ogni nostra commiserazione, ogni giustificazione, persino ogni umana curiosità. Contro di lui, a dispensarci persino da ogni rimorso o resipiscenza, c’è un giure inumano che legalizza il nostro odio o addirittura lo comanda, assolve e anzi premia la coltellata, la schioppettata, la parola ingiuriosa, la calunnia; e ci chiede di vedere quell’uomo, secondo la puerilità delle vecchie favole, “tutto cattivo”, degno di morte e sterminio: e le sue ceneri ai venti dissolvitori del nulla. Lo spirito del Male, il solo vero nemico di noi che nasciamo uomini, ha compiuto questo suo silenzioso e accecante capolavoro: di trasformare il nostro nemico in una bestia ignota e ripugnante; noi allora (anche i migliori e i più clementi) in nome del diritto di difenderci, di farci giustizia, d’insegnare ai prepotenti e agli sleali come si sta al mondo, di “difendere” la patria, lasceremo quell’uomo fuori della dialettica del prossimo. E sarà questa la più terribile eresia di cui il Grande Nemico ci renderà vittime. Da millenni la storia degli uomini si dibatte e s’insanguina entro questo conflitto – noi e il nemico –, s’impernia su questo barbaro, rovinoso concetto: che esista qualcuno che ci è lecito odiare, colpire, uccidere perché ci ha fatto del male. Entro codesta furibonda spirale, codesto moto perpetuo di guerre, omicidi, rancori a catena, il Figlio di Dio è disceso sulla terra: «È stato scritto: “ama il tuo prossimo come te stesso”; ma io vi dico: se non renderete bene per male, se non amerete anche i vostri nemici, non entrerete nel regno dei cieli». Una sera che la sua follia aveva saturato la pazienza dei suoi cittadini, lo presero, in un orto di ulivi, con spade e bastoni e lo trascinarono al patibolo. Ci fu qualcuno dei suoi che volle difenderlo, cavò la spada e tagliò l’orecchio a un servo di nome Malco. Egli si chinò, raccolse quel lembo di carne, lo rimise dove la ferita grondava sangue: e la carne si rimarginò, e tutto tornò come prima. Tutto come prima, ahimè: in questi duemila anni pieni di spade sguainate, di carni dilaniate, di gente che preferisce abbattere i suoi nemici che entrare nel regno dei cieli.
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