domenica 13 dicembre 2015
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Dinanzi a sé Johann Radmann, giovane pubblico ministero di Francoforte, non trova un muro di pietra, come quello che da lì a tre anni sarebbe stato innalzato per tagliare in due Berlino e simbolicamente il suo Paese. Il muro di Radmann è fatto di carta. E dentro quella carta c’è la storia di un orrore, di una follia e di un genocidio. I nazisti erano convinti della loro vittoria, nel loro nuovo mondo la storiografia avrebbe dovuto poggiare su fondamenta ben solide. In quell’archivio i faldoni che incombono su di lui schedano ordinatamente 10 milioni di nazisti, conservano 600.000 documenti sulle Ss, di cui ottomila in servizio ad Auschwitz. Radmann, che li vuole portare a processo, deve metterci le mani sopra. Battendosi contro un’omertà diffusa ed evitando le accuse di slealtà nei confronti della terra alla quale appartiene.   È, appunto, Il labirinto del silenzio – titolo suggestivo del film di Giulio Ricciarelli, opera prima, candidato alla cinquina degli Oscar per la Germania e nei cinema italiani dal 14 gennaio – quello in cui lui si inoltra, senza conoscerne gli esiti. Che saranno sorprendenti, perché il processo che sarà alla fine celebrato nel 1963 – il più grande della storia tedesca, durato 20 mesi – portando in aula 211 testimoni sopravvissuti al famigerato campo di concentramento e 19 membri delle Ss, di cui 17 condannati, cambierà la Germania per sempre. «È il potere di questa storia – spiega il regista, nato a Milano nel 1965, ma trasferitosi a Monaco di Baviera in giovanissima età –. Oggi è facile pensare alla fine del conflitto mondiale come liberazio- ne dal nazismo, ma negli anni ’50, quelli in cui si svolgono i fatti narrati nel film, dosati tra realtà e finzione, per i tedeschi la Germania aveva perso la guerra, una vergogna della quale non si poteva parlare. Il coraggio dei tre giovani avvocati, scelti e guidati da Fritz Bauer, pubblico ministero generale di Francoforte, la cui età non poteva creare alcun sospetto di adesione al nazismo, fece cambiare questa percezione e il futuro della nazione tedesca. Una storia da non dimenticare». La prassi, negli anni che seguirono il collasso della nazione tedesca, era quella di fingere di non sapere. «La Germania di oggi è molto rispettata per il lavoro che ha fatto sulla memoria, ma questa disposizione è nata soltanto negli anni ’60, dopo il processo di Francoforte. Infatti, alla fine della guerra tutti erano propensi a non parlare e, se qualcosa sapevano, ad ignorare. Un’intera generazione nacque in questo mondo di silenzi, senza aver mai sentito parlare di Olocausto e di Auschwitz. I genitori dicevano ai figli: non potreste capire. C’erano anche delle motivazioni politiche: Adenauer aveva tracciato una linea, di là stava il passato, di qua il futuro. Si doveva guardare solo avanti». Nel titolo si fa opportunamente riferimento al silenzio. «Il nostro punto di partenza è stata la lettura di un testo edito dall’Istituto Fritz Bauer, Nel labirinto della colpa, che prendeva in esame i processi avvenuti in Germania contro i nazisti. L’idea del labirinto era perfetta, quella della colpa ci piaceva assai meno. Così abbiamo pensato di aggiungere la parola tedesca schweigen, che non è un silenzio vero e proprio, ha una sfumatura diversa, più attiva, ossia il non voler parlare, il decidere di tacere». Un comportamento uniforme e debole che nel film viene stigmatizzato in modo quasi beffardo da un ufficiale americano responsabile dell’archivio: «Se arrivassero gli alieni da Marte, voi tedeschi diventereste tutti dei piccoli marziani. Così come siete stati tutti nazisti e oggi a Est siete tutti comunisti». «Questo era il loro punto di vista. Ma certo è la storia tedesca dell’ultimo secolo, il popolo tedesco sapeva di aver aderito al nazismo. Gli stessi americani ritenevano però opportuno in quegli anni in cui iniziava la Guerra Fredda dimenticarlo, perché il nuovo nemico comune da combattere erano i sovietici». Mentre prosegue la preparazione dei capi d’accusa e la raccolta delle testimonianze, uno dei momenti più appassionanti del film, Bauer urla in faccia a Radmann – interpretato con grande sensibilità da Alexander Fehling – una terribile verità: «Tutti quelli che non hanno detto di no sono Auschwitz». «Questa frase è originale di Bauer, suggerita dallo stesso Gert Voss che lo interpreta, uno dei più grandi attori tedeschi, scomparso nel luglio del 2014. Bauer capisce che il giovane si sta concentrando sulla caccia a un solo mostro, Mengele, ma è una debolezza. Quello che Bauer voleva era portare a processo tutte le persone normali che avevano partecipato al genocidio. Per Bauer sono mostri tutti quelli che non hanno detto di no».
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