venerdì 9 settembre 2016
Signac tradito dai riflessi sull’acqua
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Per chi ha ancora in mette la vasta retrospettiva dedicata a Paul Signac dalla Fondazione Gianadda di Martigny nel 2003, l’idea di far visita a una nuova esposizione, tredici anni dopo, nella quale si promette una «esplorazione inedita dell’opera di Paul Signac» pone qualche problema di sostanza: una mostra, ogni nuova mostra, tanto più se si tratta di un nome storico della pittura moderna, non dovrebbe essere inevitabilmente una «esplorazione inedita » sull’opera del prescelto? Altrimenti perché farla? Ma, dati i tempi attuali, tempi di industria culturale e turistica, è ovvio che la risposta potrebbe essere che le mostre si fanno anche soltanto per far vedere opere e artisti senza pretendere di aggiungere una parola al già detto. E in effetti al Museo d’arte della Svizzera Italiana (Masi) di Lugano si respira questa linea di difesa.

La mostra presenta centoquaranta opere di Signac fra dipinti e disegni, in gran parte prestati da un’unica collezione privata. Questa fonte unica più che una garanzia, è un rischio. Ne dirò fra poco, prima voglio aggiungere che la linea di difesa più giusta sarebbe stata un’altra: c’era l’opportunità di farla, e abbiamo colto al volo l’occasione, tanto più che siamo in tandem con l’Hermitage di Losanna, dove la mostra aveva aperto alcuni mesi fa. Losanna-Lugano, non è che vi sia molta distanza fisica, trecento chilometri o poco più, come fra Milano e Bologna. Il marchio museale Hermitage incarna una strategia di “esportazione” non soltanto di opere, ma soprattutto di un metodo che aveva fatto le prove generali quando alcuni grandi musei russi, con la perestrojka, cominciarono a prestare i loro capolavori a suon di dollari.

Qualcuno forse ricorderà la mostra Da Monet a Picasso. Capolavori impressionisti e postimpressionisti dal Museo Puskin di Mosca a Palazzo Reale nel 1996: fece mezzo milione di visitatori (Goldin già studiava da manager del marchio impressionista in Italia). Quella mostra, organizzata quando Daverio era assessore alla Cultura della giunta Formentini, raggiunse lo stesso risultato di pubblico che mezzo secolo prima era riuscito a Roberto Longhi con la mostra del Caravaggio. Io la ricordo bene la mostra del Puškin, perché la stroncai come esempio di abile marketing culturale (fece scuola a tutte quelle che vennero dopo in ogni parte d’Italia, per questo ho citato Goldin che ancora cerca d’invalidare quel record di monsieur Philippe). Eppure se mi pongo la domanda su quale delle due mostre – capolavori del Puškin nel 1996 e Caravaggio nel 1951 –, a parità di risultati numerici, abbia rappresentato il concetto di «esplorazione inedita », non ho dubbi di sorta: Caravaggio.

Perché? Per tante buone ragioni, a cominciare da quelle dettate da una stagione di studi straordinari che rivalutarono non solo il nostro genio, ma tutto ciò che gli girava intorno, prima e dopo di lui; e per una ragione se volete anche più puerile: ce n’era bisogno. Infatti a Milano arrivarono a migliaia da tutta Italia dentro pullman organizzati da sindacati e altre organizzazioni sociali (all’epoca Caravaggio era una icona della sinistra comunista, un rivoluzionario; poi venne Calvesi, e prima di lui Friedlander e Wittkower, a dirci che volendo era riconducibile al clima della Controriforma: non sia mai, tuonava Ferdinando Bologna.

Erano anni in cui si discettava di compromesso storico... anche nell’arte). Insomma, Caravaggio a Milano era come dire che l’arte aveva ancora un senso vitale per la gente comune, che si rispecchiava – magari eccessivamente e ingenuamente – nelle figure dei pellegrini dai piedi sporchi, nelle figure femminili di borgata che avevano prestato le sembianze alla Madonna (poi fu chiaro che Caravaggio prendeva dalla vita, ma mediava dall’arte, antica e meno antica). Il paradigma della «pittura di realtà» s’inseriva perfettamente nel dibattito artistico di quegli anni, aveva un senso per la cultura di un popolo, il nostro, che sperava di rimettersi in piedi e camminare nella direzione giusta. Come andò lo vediamo oggi a distanza di mezzo secolo. Ma non è questo il punto. Ho divagato.

Ma possiamo dire che il metodo Puškin, affittare cioè i capolavori per trasferte europee, può servire alla cultura di un popolo? Venivano dalla crisi dell’epoca socialista e della Milano da bere, dal mito della modernizzazione italiana a suon di aperitivi e balere demichelisiane, e il mondo non sembrava più così roseo e postmoderno (erano anni di tangentopoli). Il metodo Puškin applicato all’Italia era come dire: se la politica non vi ha salvato, ci penserà la bellezza: il capolavoro vi il- luminerà d’immenso. E molti sembrarono (e sembrano) d’accordo. Cominciò così la moda dell’impressionismo a oltranza. Arte da esportazione e consumo. 

Era finita l’epoca dell’«esplorazione inedita». Ecco allora che questa mostra di Signac mi ha fatto ripensare alle tristi sorti e regressive di quell’epoca che non è mai finita. Anzi siamo al top, le mostre «a pacchetto»: le prendi da un unico posto (in questo caso un’unica collezione privata), spendi meno di quanto costerebbe comporre un insieme ragionato sulla base di un principio storico-critico, e lo tagli su un tema che – quasi sempre – è esornativo: in questo caso, Signac sotto l’ottica «Riflessi sull’acqua », che è un bel messaggio per turisti in gita sul lago: venite a specchiare i vostri occhi con puntini e tacche di colore à la Signac. Il fatto è che se si viene a Lugano per questa mostra si troveranno cinque o sei opere che incantano, ma giunti a metà del percorso si comincia a pensare, un po’ con tedio e un po’ con spenta rassegnazione: ancora disegni (la parte più debole di questa mostra e del lavoro di Signac dopo l’inizio del Novecento)? Il periodo d’oro va dal 1886 alla fine del secolo.

Già ai primi albori del Novecento Signac diventa ripetitivo, cerca una strada più libera, ma è come impossibilitato a trovarla, perché la sua grandezza è tecnica, non poetica; è meticoloso, esatto, ma privo di passione. Quando è al meglio, riesce a strapparti l’elogio, ma certo non è Seurat, non ti commuove. E non per il luogo comune che lo vuole “secondo” rispetto al genio, ma perché l’imprinting che ricevette nel 1880 di fronte alla pittura di Monet lo ha condizionato al punto tale che soltanto la sicurezza di una tecnica sopraffina poteva sopperire alla limitatezza dell’ispirazione.

Per certi aspetti, un caso analogo è quello di Pissarro (il ragioniere della pittura). Eppure in quadri come Porten- Bessin del 1884, in Fécamp del 1886 Signac raggiunge il magico equilibrio di un colore distillato in mosaico atmosferico; e in alcune piccole tavole degli anni Novanta dà l’impressione di poter andare oltre la maniera pointilliste, sembra accendersi di un colore già fauve ( Vlaminck e Derain, forse anche Matisse, lo guardarono, anche se i veri riferimenti erano Gauguin e Van Gogh). In Concatenau e Tramonto sulla città, tenta l’azzardo; nel Giocatore di bocce è già espressionista, selvaggio ma la pennellata strutturante tradisce la sua natura di artista anaffettivo, essenzialmente visivo.

Sarebbe stato bello a questo punto che la mostra avesse sviluppato il discorso per collocarlo dentro questo clima nascente della pittura (il discorso della novità pointilliste per Signac era già esaurito alla fine degli anni Novanta, anche se nel 1903 ci dà un pezzo di pittura davvero notevole con la tela Saint-Cloud). Viaggia molto e nel catalogo, edito da Skira, si sottolinea a più riprese il suo nomadismo: Olanda, Costa Azzurra, Istanbul, Londra, anche in Italia: ma i quadri su Venezia sono poco interessanti. 

 Quanto alla miriade di disegni degli anni Venti e Trenta presentati in questa mostra, francamente deludono, come se si avesse di fronte un talento sempre più incerto, spaesato, ormai vinto da una modernità che non sa comprendere. Stupisce che questa debolezza nella quantità non sia saltata all’occhio della curatrice della mostra, Marina Ferretti Bocquillon, che già tredici anni fa aveva curato la rassegna di Martigny, di ben altro calibro quanto a scelta delle opere (da numerosi prestatori). Ma allora a tirare le fila c’era Françoise Cachin, nel frattempo scomparsa (la mostra di Lugano è dedicata a lei). Evidentemente, trattandosi di mostra «a pacchetto» non c’erano alternative per la curatrice. E così si può dire che d’inedito forse c’è il materiale esposto, ma non l’esplorazione.

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