mercoledì 27 luglio 2016
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Inediti Settant’anni fa all’indomani della Seconda guerra mondiale il medico teologo inviò allo scrittore missive di stima per il suo impegno per la pace. Se è vero che dalla fine della seconda guerra mondiale, i lavori del prolifico Hermann Hesse - anche per le condizioni di salute sempre più fragili - diminuirono un po’ quanto a spessore, è pure vero che dopo il 1945 lo scrittore divenne famoso guadagnandosi l’attenzione della critica, dei media e di un pubblico che ha continuato a seguirlo generazione dopo generazione. Non solo. Se è vero che in un primo momento ci fu un atteggiamento di reciproca diffidenza tra gli occupanti americani ed Hesse (i primi gli rinfacciavano lo «splendido isolamento» al sole del Ticino mentre Thomas Mann, Stefan Zweig, Franz Werfel ed altri denunciavano con vigore la barbarie; il secondo, pur mai indulgente con il nazismo, ma appartato nella sua neutrale «impoliticità», non si fidava della regia degli Usa nel riassetto dell’Europa), è pur vero che tutto rimase senza conseguenze per i prestigiosi riconoscimenti giunti a Hesse proprio settant’anni fa.

Nell’agosto 1946, anno della pubblicazione di Guerra e pace. Considerazioni sulla guerra e la politica dal 1914 (una raccolta di scritti a partire dal famoso Amici, non questi accenti! in cui al crepitare della Grande Guerra si era rivolto contro gli intellettuali che sostenevano bellicosi istinti politici portando l’Europa verso la catastrofe), lo scrittore ricevette infatti il Premio Goethe, mentre in novembre gli fu assegnato il premio Nobel (e a fine mese Suhrkamp pubblicava la prima edizione tedesca del Gioco delle perle di vetro, cosa vietatagli dal Ministero della propaganda quattro anni prima, motivo per il quale Hesse l’aveva edito in Svizzera). In entrambi i casi un doppio tributo non solo alla qualità della sua scrittura, ma pure agli ideali umanitari portati avanti, al quale seguirono altri premi. Assegnato dalla città di Francoforte, il «Goethe» era considerato il più alto riconoscimento letterario in Germania. Hesse, alla vigilia dei settant’anni, avverso ad ogni clamore sulla sua persona, mandò la moglie Ninon a ritirarlo nella città sul Meno, scrivendo però in quell’occasione un testo di ringraziamento ben più lungo di quello successivamente inviato per il Nobel. Menzionata la sua iniziale esitazione ad accettare il premio, quasi potesse significare subito una completa riconciliazione con quella Germania ufficiale che durante la guerra lo aveva derubato del «lavoro di una vita», confessava di aver mutato parere, per poter richiamare tutti sulle due più grandi aberrazioni responsabili - ai suoi occhi della tragica situazione mondiale: la megalomania della tecnica e del nazionalismo.

Questi i due mali da combattere nello spirito di Goethe: «E così la nostra Europa, mortalmente inferma, che aveva rinunciato completamente al suo ruolo di guida, può forse ridiventare un concetto espressivo di un alto valore, una pacifica riserva, un tesoro di nobilissime memorie, un rifugio delle anime… », si legge nel suo messaggio di ringraziamento. Hesse in quel periodo fu altrettanto destinatario di parole di gratitudine e plauso pervenutegli da varie parti del mondo. Tra queste, quelle del pastore Albert Schweitzer, teologo, musicologo, medico (che pure già nel 1928 aveva ricevuto il Premio Goethe), inviategli da Lambaréné, nel Gabon, dove lavorava per i lebbrosi. Nella lettera, custodita negli Archivi della Maison Albert Schweitzer a Gunsbach, in Alsazia, insieme alla responsiva di Hesse (pubblicate qui in prima traduzione italiana), Schweitzer - tra l’altro - confi- dava allo scrittore l’ammirazione per le sue opere, affermando però, soprattutto, di sentirsi legato a lui «dall’ideale di umanità», aggiungendo «Tutti e due vi siamo rimasti fedeli nel momento in cui perdeva di valore. Questo crea una comunione, che ho vividamente percepito in questi anni». Hesse avrebbe risposto molto tempo dopo affermando di condividere i sentimenti manifestati non senza esprimere affetto riconoscente anche a Schweitzer quale autore di scritti fondamentali su Bach. «…da tempo sono malato, e al momento particolarmente sovraccarico», confida inoltre Hesse al medico-missionario che pochi anni dopo, nel 1952, sarebbe stato insignito del Premio Nobel per la Pace per il suo operato africano (lui però ammoniva «non voglio comparire come un medico che ha curato dei malati: è la mia filosofia del rispetto per la vita che considero il mio principale contributo all’umanità»). Una filosofia che Hesse - dopo aver più volte ripetuto come il «il più bel frutto dell’umanesimo» fosse «il profondo rispetto dell’individuo»- dimostrò di condividere anche nelle due paginette scritte per il conferimento del Nobel per la letteratura. 

Anche in questo caso lo scrittore non si recò a Stoccolma, ma, nel breve testo inviato, insieme alle scuse per non poter presenziare a causa delle sue condizioni rovinate dalle tensioni subentrate - scrisse - a partire dal 1933 (l’anno dell’ascesa di Hitler), affermava comunque di sentirsi spiritualmente integro e solidale con le finalità del Nobel concordando con la «sovranazionalità e l’internazionalità dello spirito, e col suo impegno a servire non alla guerra e alla distruzione, ma alla pace e alla riconciliazione». Riteneva poi il premio «insieme un riconoscimento della lingua tedesca e del contributo tedesco alla cultura», «un gesto di riconciliazione e di buona volontà di riprendere la collaborazione spirituale tra tutti i popoli», certamente consapevole delle sfaccettature politiche di una scelta che finiva per mostrare al mondo un rappresentante della cultura tedesca moralmente credibile e tessitore di pace.  

E, restando in tema, sempre ad Hesse, nel 1955 veniva conferita un’altra importante onorificenza: il Premio della Pace dei Librai tedeschi, destinato ad onorare personalità rilevanti per il loro contributo al pensiero pacifista. Anche in questo caso Schweitzer, pure Friedenspreis des Deutschen Buchhandels nel ’51 non faceva mancare il suo plauso: «Caro Hermann Hesse» -gli scriveva da Gunsbach in una lettera inedita il 5 ottobre 1955- «i miei migliori auguri per il Premio della Pace. Mi dispiace moltissimo di essere in Europa e non riuscire a venire a Francoforte per poterci finalmente guardare negli occhi. Ma sono così stanco, e ho da portare a termine un lavoro pesante, prima di andare in Inghilterra a metà mese. E così non posso concedermi neppure un giorno libero… Pensandola con affetto Suo devoto Albert Schweitzer».

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