mercoledì 23 marzo 2016
Sartini e il fuoco dell’Ultima Cena
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E' fin troppo evidente: è molto più che evidente. È ovvio, è palese, è banale, è lapalissiano. Roba che ti verrebbe voglia di non dirla nemmeno (sì, vabbè, Leonardo…), ma che se non la dici, poi c’è un sacco di gente che si stupisce (come: e Leonardo, allora!...). On ne badine pas avec da Vinci. Infatti, non c’entra nulla. Sarebbe come dire de Chirico uguale Velázquez, Sciltian come Tiziano. Proprio perché ai “grandi archetipi” non si sfugge, a essi sempre si torna, sempre ci s’ispira. Tredici a tavola, una tovaglia immacolata. Il pane. Il vino. Il calice. Dodici storie diverse, dodici pescatori ignari e perplessi o attenti e devoti o distratti e tormentati. Una tavola imbandita, e nessuno che mangi un boccone, o che l’abbia appena fatto, o che si appresti a farlo. Un’anfora, un cratere, un bacino con l’asciugatoio, tutto il Vangelo riassunto in pochi oggetti. Povere tuniche tessute sui telai casalinghi, coperte di poco prezzo gettate sulle spalle come toghe d’un rustico senato: una banda di galilei spiantati, anacronisticamente seduti a tre tavoli da artigiano (contate le zampe delle rustiche 'capre' che li sostengono: sono sei, quindi tre piani di legno avvicinati e coperti dalla tovaglia per arrivare alla lunghezza voluta, per metterne tredici a mensa: una scelta all’origine di una cosa che non si fa più per non sfidare la legge di Murphy). Un povero cane che non c’entra nulla e che, a giudicare da quel che è servito per cena, sarà grassa se dovrà accontentarsi di un boccone di pane e di un pezzetto di pecorino: roba che un gatto non degnerebbe neppure, anzi scapperebbe – coda e pelo dritti, zampe levate – come quello dell’Annunciazione di Lorenzo Lotto, gentile eppur diabolico famulus domestico della ragazzina scelta ab aeterno, «termine fisso d’eterno consiglio». E poi c’è Lui, silente, un attimo prima di pronunziare le parole che cambieranno la storia e che obbligheranno per sempre l’Onnipotente a scendere e a penetrare un pezzo di pane e un po’ di vino ogni volta che un povero peccatore che abbia ricevuto sulle mani il Segno ordini a Lui, al Creatore di tutto, di trasformare in carne e in sangue – quella Carne, quel Sangue – le due povere vivande frutto del lavoro dell’uomo. Lui, che sa che cosa lo attendeva da sempre, che cosa lo aÈ spetta tra poche ore. Lui, che può tutto e che pure teme la morte come qualunque altro figlio di mamma rivestito di carne tremula. Lui, cinto del nimbo delle divinità induiste e dei gran re persiani, le mani bellissime che hanno guarito e consolato e che saranno presto trafitte dai chiodi, la coppa destinata a diventar leggenda anzi mito – dal Medioevo fino a Wagner e oltre – appena sfiorata dalla sua destra. E tutto è lì, compresente e concentrato. E tutto scompare: la storia, la filologia, la biblistica, l’archeologia, l’antropologia, le citazioni, i plagi, i ricordi, i rimorsi, la speranza, il dolore. Dalle nozze di Cana di Galilea all’Ultima Cena, dal banchetto in casa di Simone al desco di Emmaus, siamo in effetti abituati a vedere il Signore assiso a tavola: e le grandi tradizioni pittoriche medievale, rinascimentale, manierista e barocca ci hanno abituato a immagini di gran tavolate talora principesche, talaltra rustiche. Inutile pensare alle austere immagini di un Ghirlandaio nel refettorio della fiorentina chiesa francescana di Ognissanti o di un Leonardo in Santa Maria delle Grazie a Milano, a proposito delle quali si è a lungo disputato sulla natura e sulla qualità dei cibi pasquali – o di quelli quaresimali, che talora mischiati ad essi a loro volta compaiono – in rapporto alle tradizioni kosher alle quali Gesù era in realtà fedelissimo. L’elargizione del pane quotidiano è, insieme con la remissione dei peccati e la richiesta di protezione dal male, il nucleo delle preghiere che noi rivolgiamo ogni giorno al Padre, dopo averne santificato il nome, auspicato il regno e reso omaggio alla volontà. In tempi di sprechi alimentari diffusi e di fame che attanaglia centinaia di milioni di poveri in tutto il mondo, quella semplice preghiera, che in troppi recitiamo distrattamente, acquista un valore abissale, un significato terribile. Ma Ulisse Sartini, raccontando la “sua” Ultima Cena, delle tradizioni pasquali ebraiche e della lettera evangelica non si cura se non per quel tanto di messaggio archetipico che ne discende. La sua è un’atemporalità non divina bensì umana, l’unica che a noi umani è dato di conseguire: l’atemporalità rappresentata dall’«eterno presente», quello dei gesti, degli sguardi, delle vesti e dei cibi senza storia in quanto la scena rappresentata è di quelle (pochissime) che per un istante trascendono la storia, la sintetizzano vanificandola, l’annullano dandole un senso, il senso definitivo. Come un istante del dottor Faust ( Verweile doch! Du bist so schön!) che non preluda però, dopo il suo arcano battito di ciglia, alla dannazione eterna, bensì sfoci nella Luce senza tramonto e senza confini. E l’umano «eterno presente», quello nostro e della nostra sensibilità, è quello d’una purezza nella quale convergono miti precristiani e suggestioni orientali, sogni irenistici e nostalgie adamitiche. Una tavola dalla quale la morte e il sacrificio cruento, che pure fanno – e con ragione – intrinsecamente parte della mensa festiva ebraica come di quella omerica, sono rigorosamente banditi. Una mensa che sarebbe respinta dal cistercense Bernardo di Clairvaux come dai nostri ragazzi vegani, data la presenza di uova, di caci e di ricotte. Una mensa da «dieta mediterranea», direbbe il solito fan della banalità a tutti i costi; o magari perfino salutista e new age. Una mensa umanatroppo- umana, della vita-solo-vita, dalla quale sono banditi il ricordo del sangue e del fuoco (a dirla con Lévi-Strauss qui il crudo prevale nettamente sul cotto, con le mezze eccezioni del pane e dei prodotti caseari che d’un po’ di fiamma e di fuoco hanno pur bisogno). Una mensa augurale per tutto il genere umano, dalla quale viene abolito tutto quel che può essere tabù per uno qualunque degli invitati e che, un po’ come le cerimonie interreligiose di Assisi, sia fatta per unificare tutti eliminando quel che è sacrosanto in sé, ma confrontato con l’altrui può esser causa di fraintendimento e di divisione.  Non è proprio il «genti diverse, venute dall’est / dicevan che in fondo era uguale», secondo la scettica riflessione che De André presta, nei suoi Vangeli apocrifi, al buon Tito. È piuttosto la visione profetica di Nicola Cusano, la pentecostale e apocalittica visione di tutti i popoli di ogni tempo e di ogni luogo prostrati ai piedi del Trono di Dio, al quale ciascuno di essi è pervenuto seguendo passo dietro passo le parole e i segni della sua tradizione espressi nel suo proprio linguaggio.
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