sabato 13 febbraio 2016
Il millenarismo teofobico di Sansal
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Quale sarà l’approdo conclusivo della spirale di violenze, intolleranza, soprusi, bombardamenti, macerie, esodi che continua a dilaniare la carne e logorare i nervi delle popolazioni basate fra il Maghreb e le sterminate contrade asciutte orientali oltre il Tigri e l’Eufrate unificate anticamente da Alessandro Magno? Per lo scrittore algerino francofono Boualem Sansal, che prima di concepire romanzi è stato ingegnere, alto funzionario ministeriale e insegnante ad Algeri, il vecchio e controverso progetto geopolitico di un 'grande Medio Oriente' filo occidentale auspicato in particolare dal Pentagono potrebbe eclissarsi definitivamente per lasciare il posto a foschi scenari di declino della civiltà. Nel romanzo 2084. La fine del mondo, in arrivo in Italia per Neri Pozza dopo aver riscosso un vasto successo in Francia, il lettore è catapultato in un’utopia negativa degna del 1984 di Orwell, al quale Sansal si richiama apertamente, oltre che nel titolo, pure nell’avvertenza ai lettori. Pur senza riferimenti espliciti all’islam e a territori o popolazioni precisi, Sansal ambienta le peregrinazioni dei due protagonisti, Ati e il suo amico Koa, in un immaginario e polveroso impero post-bellico dai confini indefiniti, l’Abistan, che assomiglia molto a un’ipertrofia dell’attuale Daesh. In questo regime teocratico che ricorda a tratti vagamente pure il khomeinismo, o la chiusura ermetica della dittatura comunista nordcoreana, la maggioranza degli abitanti accetta supinamente il controllo totalitario, le esibizioni di brutalità e le prescrizioni asfissianti del potere basato nella capitale Qodsabad. In preda a un’amnesia misteriosamente orchestrata dall’alto, la popolazione non ha più idea dei confini precisi dell’impero, al punto da crederlo vasto come l’intera ecumene.  La vita sociale è annegata in un oceano di riti quasi ipnotici e immemorabili. Fra formule dettate dall’alto, stenti e noia. Un po’ per caso, Ati e Koa sono fra i pochi a coltivare dei dubbi, destinati a tradursi in una lunga erranza geografica ed esistenziale. Alla fine, uno spiraglio di speran- za affiora dietro le cortine, ma nessun lettore potrà uscire rassicurato da un simile incubo letterario. Sansal, 66 anni, si è dato alla scrittura in età avanzata. Ma in pochi anni, i suoi romanzi e pamphlet politici gli hanno garantito crescente fama e una pioggia di riconoscimenti, soprattutto in Francia e Germania. Fin dall’ecatombe bellica e terroristica degli anni Novanta in Algeria, Sansal ha scelto il ruolo scomodo di dissidente rimasto nel Paese natale, pur «pensando ogni giorno» all’esilio. Avendo denunciato pure la corruzione dei vertici algerini, da funzionario al Ministero dell’Industria, è stato licenziato e censurato. Poi, una volta impugnata la penna «come altri indossano la mimetica», la volontà costante di dialogare con gli scrittori israeliani l’ha ancor più esposto a frequenti minacce, partite pure da Hamas. Pressoché tutti gli scritti di Sansal denunciano le derive politico-religiose che ha sperimentato in prima persona. Certi titoli sono particolarmente espliciti, come il recente saggio Gouverner au nom d’Allah: islamisation et soif de pouvoir dans le monde arabe (Gallimard). E nella Francia appena pugnalata dal terrorismo, 2084 è stato subito considerato un «avvertimento dall’interno» da non prendere troppo alla leggera. Come mostrano tanti suoi interventi pubblici recenti, Sansal è spesso sollecitato pure come una sorta di cassandra sulla minaccia jihadista. Un po’ come nel caso del francese Michel Houellebecq, autore recentemente del controverso romanzo Sottomissione (in Italia, per Bompiani), focalizzato sul rischio di un’'islamizzazione' europea. Del resto, le forti vendite dei due autori interessano pure i sociologi, convinti che Houellebecq e Sansal abbiano intercettato i peggiori presentimenti dell’Europa di questi mesi. Ma al contempo, da più parti, i due scrittori sono accusati di assecondare implicitamente la strisciante 'islamofobia' che a livello politico favorisce da tempo in Francia l’ascesa dell’ultradestra xenofoba.  Lo sguardo dei due autori sulla religiosità umana in generale non sembra sovrapponibile. L’'inquietudine metafisica' di Houellebecq è stata spesso sottolineata dalla critica, pronta talora persino a tratteggiare un autore «cinico e mistico». Se «l’ateismo è morto», come ha dichiarato di recente lo scrittore, molti dei suoi personaggi, pur con i loro lampi di ricerca spirituale, restano soprattutto intimamente sopraffatti dalla disillusione per la vacuità del consumismo odierno. Sansal, almeno nel caso di 2084, pare invece più tentato da un’indistinta antireligiosità, che traspare ad esempio dalla secca epigrafe iniziale: «La religione fa forse amare Dio, ma nulla è più forte per far detestare l’uomo e odiare l’umanità». E rafforzano quest’impressione pure certi dettagli narrativi, come l’uso incongruente dell’espressione agostiniana «città di Dio» per denominare un epicentro totalitario dell’Abistan.
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