giovedì 15 settembre 2016
Rosemary, l'angelo dell'Uganda
COMMENTA E CONDIVIDI
«Le piace?», dice appena entrata, mostrando la borsa. Un’elegante tracolla il cui intreccio rosso- dorato contrasta con l’austerità dell’abito, una semplice tunica di cotone grigio. «Attenzione: questa non è una borsa, è una metafora». Accompagna la frase con un enorme sorriso suor Rosemary Nyirumbe. Poi, spiega: «È bella, vero? Eppure, è fatta con le linguette delle lattine. Cioè con ciò che abitualmente gettiamo nella spazzatura. Anche le mie ragazze erano state “scartate” dalla società ugandese. All’istituto Santa Monica, però, tirate a lucido e tessute insieme da un destino comune, sono diventate dei preziosi tesori». My girls, «le mie ragazze», chiama sempre così – e mai “ex ribelli” –, le oltre duemila giovani a cui ha ridonato vita, dopo l’incubo dell’“Esercito di resistenza del Signore” (Lra). Per quasi due decenni, dal 1987 alla metà degli anni Duemila, il gruppo, guidato Joseph Kony ha insanguinato il Nord del Paese, massacrando decine di migliaia di persone nel delirante intento di creare una “società purificata”. Dallo sterminio, dovevano scampare solo i bambini. Per cui Kony aveva in mente un piano ancor più crudele. I piccoli, strappati alla famiglie, venivano trasformati, a furia di torture e terrore, in macchine assassine. A loro, i piccoli, spietati combattenti – nella visione farneticante del Lra – sarebbe toccato il compito di costruire il “nuovo Paese”, dopo la vittoria. L’impiego sistematico di baby soldati è stato uno degli aspetti più sconvolgenti dell’ultimo conflitto ugandese. «Nel dramma  complessivo è passata, poi, sotto silenzio la condizione delle bambine. A migliaia sono state sequestrate, stuprate, “date in dono” ai comandanti o costrette a uccidere. Molte, ancora bimbe, hanno avuto dei figli mentre erano nel Lra. Una volta smobilitate,  dunque, sono state rifiutate ancor più degli ex compagni maschi».Al riscatto delle bimbe soldato, suor Rosemary ha dedicato gli ultimi 15 anni. «La mia seconda chiamata», racconta a Reggie Whitten e Nancy Henderson nel libro Rosemary Nyirumbe. Cucire la speranza, appena pubblicato da Emi (con prefazione di Toni Capuozzo; pagine 240, euro 17,50). La storia appassionata di una donna – che domani porterà la sua testimonianza al festival Pordenonelegge –, pronta a sfidare pregiudizi, minacce e paure in nome del Vangelo. Eppure, questa religiosa del Sacro Cuore di Gesù – nominata eroe dell’anno dalla Cnn nel 2007 e inserita da “Time” fra le cento personalità più influenti nel 2014 – confessa: «Non so parlare di Dio».Strano per una suora…«Non penso che il Signore si possa raccontare. La fede può essere solo vissuta, giorno dopo giorno. L’amore condiviso è la narrazione autentica di Dio».L’amore è il cuore del progetto in corso all’istituto Santa Monica.«Non c’è una formula per aiutare le bimbe sequestrate dal Lra a ricominciare a vivere. Devi essere pronta a fare un lungo, lunghissimo viaggio insieme a loro, camminando fianco a fianco, fino all’uscita dal tunnel».Nel 2001 lei è stata inviata dalla congregazione a dirigere una scuola per ragazze a Gulu. Com’è avvenuta la “seconda chiamata” che l’ha portata a dedicarsi alle ex bambine soldato?«Attraverso l’incontro con una di queste ragazzine, in carne ed ossa. La mia fonte di ispirazione si chiama Jewel. Era una studentessa molto introversa. Stava sempre in disparte e nessuno dei familiari veniva a trovarla. In classe non guardava né i compagni né l’insegnante negli occhi. Un giorno l’ho chiamata fuori e le ho detto: “Jewel, sono così brutta che non vuoi guardarmi?”. Lei ha accennato un timido sorriso e mi ha raccontato: “No sorella. Mi vergogno: sono stata nove anni con i ribelli e ho paura che gli altri scoprano quanto di terribile ho fatto”. Attraverso la sua sofferenza, ho aperto gli occhi. Anche alcune ragazzine di Santa Monica erano state arruolate a forza e non me n’ero accorta. Grazie a Jewel ho toccato con mano il loro dolore. E non ho più potuto voltarmi dall’altra parte».Che cosa ha fatto, dunque?«Un annuncio alla radio. In cui ho invitato tutte le ragazze fuggite dalle file del Lra o liberate dall’esercito governativo a venire a Santa Monica insieme ai lo- ro figli. Ho promesso che, insieme alle mie consorelle, ce saremmo prese cura. E avremmo offerto loro le competenze necessarie per rifarsi una vita».A Santa Monica viene dato ampio spazio alla formazione professionale. La borsa che porta è fatta dalle sue allieve…«Già. Fin dall’inizio ci siamo concentrate sul cucito e la cucina. Abbiamo attivato convenzioni perché l’istituto potesse offrire servizi di catering, confezionare le uniformi per le scuole della zona o vendere borse. L’obiettivo è, innanzitutto, quello che le ragazze possano rendersi indipendenti, una volta lasciata Santa Monica. Imparare a creare con le proprie mani qualcosa di bello e buono, inoltre, restituisce loro quella fiducia in se stesse che il Lra ha cercato di toglierli. Pian piano, borsa dopo borsa, si rendono conto che la vita non è finita nella boscaglia. C’è ancora futuro. A quel punto smettono di essere vittime e diventano ciò che realmente sono: eroine. Piccole donne coraggiose che rifiutano di lasciarsi sopraffare dal male ricevuto. Le ammiro. Mi hanno insegnato tanto».Che cosa, in particolare, ha imparato da loro?«Che nessuno è senza speranza. Che non ci sono popoli né continenti condannati alla guerra perenne o alla povertà. Che si può sempre ricominciare».L’Africa e i suoi drammi, spesso, sembrano terribilmente lontani agli europei. Tranne quando i flussi migratori ce li “sbattono in faccia”…«Per questo, invito sempre l’Europa ad allargare lo sguardo oltre i propri confini. Quanto è accaduto altrove insegna a non ripetere i medesimi errori. L’odio nei confronti del diverso, dell’esponente dell’altro gruppo etnico o linguistico o religioso, è stata la radice di molti orrori africani».Come si può imparare a convivere fra diversi? Spesso tanti hanno paura dei migranti…«Camminando insieme. Agli europei suggerisco: iniziate dalle piccole cose. Provate a trascorrere qualche momento con i migranti. Scoprirete di avere molti più punti in comune che differenze».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: